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27 Sep 14:13

Intolleranza e disattivazione politica. Le democrazie “off shore”

by Redazione Contropiano

L’intolleranza verso il dissenso costituisce una delle principali manifestazioni della crisi della politica di oggi, che ostacola la possibilità di azione collettiva, nega lo spazio per la mediazione tra le istituzioni e il popolo e impedisce poi ai settori sociali di rappresentarsi come agenti della propria storia (Balibar, 2016 ). […]

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30 Aug 12:35

Tesla e l'autopilota della discordia

Indiscrezioni parlano di una compagnia automobilistica non esattamente concorde nel tipo di marketing da adottare per la funzionalita' di guida autonoma delle sue auto, con Musk che accelera e gli ingegneri che si licenziano
30 Aug 07:48

Varsavia: “Meglio con l’SS Bandera che con Mosca”

by Redazione Contropiano

La previsione era sin troppo facile. Se ancora pochissimi giorni prima del 24 agosto, qualche sparuta voce si levava a Varsavia contro la partecipazione di soldati della Trzecia Rzeczpospolita Polska alla parata militare a Kiev per l’anniversario della “indipendenza” ucraina, al suono dell’inno OUN-UPA di Bandera e Šuchevič, il Ministero della difesa […]

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24 Jun 17:16

Qui i ricordi, li il futuro!

by Vecchia Talpa
Altro che paese di immigrati, solo paese di passaggio obbligato!Nessuno vuol rimanere nel nostro pese, nemmeno gli stessi italiani. Se son vere le cifre pubblicate dall'Osservatorio del Lavoro. Solo nel 2015 sono oltre mezzo milioni i giovani e meno giovani che hanno lasciato il Paese. Per lo più laureati e con istruzione medio alta. Le motivazioni sono la mancanza di prospettive di lavoro, una
31 May 10:24

La gentrification che sta cambiando Barcellona

by Sara Farolfi

Il mito della Barcellona risorta con le Olimpiadi del ’92 ha indicato la strada per la rinascita alle altre città europee post industriali. Ma Barcellona è davvero un esempio da seguire?

Nel capoluogo della Catalogna c’è chi, da anni, mette in discussione il suo modello di sviluppo urbano, assurto a dogma da amministratori e media mainstream e preso a riferimento anche da molte città italiane. Tra le voci critiche più interessanti, ci sono i sociologi e antropologi Giuseppe Aricò e Marc Dalmau i Torvà: il primo è membro dell’Osservatorio di Antropologia del Conflitto Urbano (OACU), il secondo, socio della cooperativa La Ciutat invisible, ha partecipato all’esperienza di Can Battló, caso esemplare di recupero del patrimonio industriale da parte della cittadinanza. E’ per conoscere il loro punto di vista che sono venuto qui. E perché la questione urbana è una delle grandi questioni del nostro tempo.

Ogni volta che torno a Barcellona sono preda di sentimenti contrastanti. Da una parte la città sembra avere tutto ciò che si possa desiderare: mare, clima, bellezza e dolce vita. Dall’altra, continua a perdere pezzi della sua identità e assomiglia sempre più ad altre città globali. Cammini a Sant Antoni, un tempo quartiere popolare, e ti sembra di stare a Shoreditch o a Williamsburg, i quartieri hipster più famosi di Londra e New York: ristoranti dalla cucina ricercata, café veg, cibi organici, succhi estratti a freddo, negozi vintage e mobili retrò. E gli affitti in zona sono schizzati alle stelle. Trasformazioni non meno radicali hanno interessato il poco distante Poble Sec, l’ex quartiere operaio ubicato tra il centralissimo Raval e la collina del Montjuic: oggi, tra bar e ristoranti, si contano ben 45 attività commerciali lungo i circa 620 metri della sua “rambla” pedonalizzata. Processi simili, poi, sono in atto anche nel vecchio pueblo di Gracia e nel quartiere del Poblenou, simbolo del passato industriale della città. Per non parlare del quartiere marinaro della Barceloneta, dove invece degli economici chiringuitos di una volta si trovano più ambiziosi gastro-chiringuitos e si sorseggiano cocktail all’ombra di un hotel a vela che fa tanto Dubai.

Emergenza casa

Nessun quartiere viene risparmiato. Si chiama gentrification: chi più, chi meno, chi prima, chi dopo, tutti subiscono una metamorfosi identitaria, che comincia con l’impennata degli affitti e si conclude con la sostituzione di classi medio-basse e basse con classi medio-alte e alte. Idealista, portale online leader nell’ambito dell’ospitalità, sostiene che in alcuni quartieri gli affitti sono saliti addirittura del 15% rispetto ai picchi del 2007, quando si era ancora in piena bolla immobiliare. Un aumento vertiginoso, favorito anche dal proliferare di appartamenti turistici, che, secondo uno studio del comune, sfiorano le 16000 unità, di cui il 40% senza licenza. In una città come Barcellona, ormai una delle principali mete del turismo internazionale, gli affitti brevi rendono molto di più degli affitti a lungo termine e molti proprietari non si sono lasciati scappare l’occasione. Per questo, la sindaca Ada Colau ha intrapreso una battaglia legale contro Airbnb e Homeway, veri e propri colossi di internet nel settore degli affitti a breve termine.

Non è questa l’unica iniziativa dell’attuale giunta per affrontare l’emergenza abitativa, priorità assoluta per Ada Colau, che nel decennio passato è stata protagonista delle lotte per la casa, prima con il collettivo “V de Vivienda” e poi guidando la piattaforma contro gli sfratti (PAH). L’azione della sindaca si sta sviluppando in due direzioni: da una parte, ha predisposto la costruzione di oltre 2000 alloggi da destinare all’edilizia pubblica, oggi ferma all’1,5% contro il 15% della media europea; dall’altra, sta studiando come limitare i prezzi degli affitti. Inoltre, è notizia di questi ultimi giorni, l’amministrazione comunale starebbe preparando in segreto un piano contro la gentrificazione.

A ogni città i suoi palazzinari

Basterà? Secondo Giuseppe Aricò le cose non potranno cambiare in profondità senza puntare il dito contro i veri responsabili: “Un vero cambiamento non può che toccare i poteri forti della città, che hanno nome e cognome: Jose Luiz Navarro, la famiglia Sanahuja, quella Koplowitz e altri grandi grandi investitori immobiliari. Perché tutto inizia e finisce con il settore immobiliare in una città come questa”.

Pensando alla grande speculazione in atto a Roma con lo stadio di Tor di Valle, verrebbe da dire: a ogni città i suoi palazzinari. Palazzinari che a Roma hanno esercitato enormi pressioni per la candidatura dell’Urbe alle Olimpiadi del 2024, sbandierandole come volano economico dai benefici universali: guardate – dicevano – le Olimpiadi di Barcellona come hanno cambiato pelle alla città e guardate Torino che ha seguito quel modello e si è rilanciata con i giochi olimpici invernali del 2006 (dimenticano però di dire che il capoluogo piemontese è così diventato la città più indebitata d’Italia, con una eredità di strutture costruite per l’occasione e costate decine di milioni di euro, oggi in stato di abbandono). I grandi eventi, quindi, vengono universalmente presentati come propulsori della trasformazione, o, come viene chiamata spesso, rigenerazione. In nome di una logica che, in tempi di crisi – soprattutto di idee – è rimasta uno dei pochi appigli a cui aggrapparsi.

Le Olimpiadi come tassello mancante di un lungo processo

Per capirne dinamiche e conseguenze, occorre ripercorrere brevemente la storia di Barcellona. A guardarla bene, emerge un quadro diverso da quello diffuso nell’opinione pubblica: le tanto celebrate Olimpiadi sono state solo un importante tassello di un processo che veniva da lontano e che rispondeva a un’ideologia precisa. “L’origine del modello Barcellona – spiega Marc Dalmau i Torvà – possiamo datarlo con la prima esposizione universale (1888), quando si decise di seguire un modello urbanistico di crescita illimitata, nonostante i limiti geografici”. Ma è circa 60 anni fa che si gettano le fondamenta dell’impianto che conosciamo oggi. Si era allora in pieno franchismo e sullo scranno più alto del governo cittadino sedeva il notaio Josep Maria de Porcioles, longa manus del regime e collante con il catalanismo. Nei suoi ben 16 anni di amministrazione, dal ’57 al ’73, Porcioles avviò uno sviluppo urbanistico senza precedenti, per fare di Barcellona una meta turistico-commerciale di fama internazionale. Come recitava uno slogan del tempo, “Barcellona, città del turismo e dei congressi”.

E’ in quest’epoca che si affermano quelle collaborazioni pubblico-private che guideranno la trasformazione olimpica della città. L’era Porcioles, infatti, sdogana la privatizzazione delle politiche comunali e arricchisce alcuni gruppi immobiliari della città attraverso grandi opere speculative e continue riqualificazioni del suolo urbano. Ritrovare i nomi delle stesse imprese nella maggior parte degli interventi cittadini degli ultimi 50 anni pone qualche dubbio sulla vulgata comune, che suddivide la storia urbanistica di Barcellona in tappe e, soprattutto, in tre fasi distinte: il periodo franchista, la transizione e, infine, l’eldorado felice dell’urbanismo democratico, condiviso per il bene di tutti e simboleggiato dalle Olimpiadi. “Si è soliti pensare – mi racconta Giuseppe Aricò – che abbiamo vissuto un urbanismo del prima, dove non si permetteva la partecipazione cittadina, e un urbanismo del dopo, ispirato dal principio di una città aperta, una città partecipativa. Nonostante gli slogan di allora, le Olimpiadi, però, ci hanno mostrato che non è così: la collaborazione pubblico-privata è stato un trionfo non tanto del pubblico, quanto del privato, ossia degli interessi privati del mercato immobiliare”.

E che un filo accomuni i diversi periodi storici lo si capisce anche dalla continuità dei piani urbanistici. Nel 1976, tre anni dopo la fine dell’amministrazione di Porcioles, fu approvato il piano tutt’ora vigente: alla sua base, l’idea di una città terziaria, fondata sul consumo e abitata in particolare da classi medie e medio alte, che non necessitino di molti servizi. Con buona pace delle classi più basse. Per trasformare i desideri in realtà serviva, però, un grande evento. Porcioles, per il suo piano Pla Barcelona 2000, presentato nel 1967 e poi naufragato in un mare di proteste, lo aveva individuato nell’Esposizione Universale del 1982. Toccherà invece alle Olimpiadi realizzare i sogni di rigenerazione urbana del sindaco franchista e dei grandi gruppi immobiliari.

Che la “riqualificazione” abbia inizio!

Sin dalla prima metà degli anni ’80, in concomitanza con il processo di candidatura di Barcellona alle Olimpiadi, fioriscono i primi interventi di “agopuntura urbana”. “Si tratta – continua Giuseppe Aricò – di micro e piccole operazioni, distribuite a pioggia. E’ nel centro che si è concentrata la maggior parte degli interventi, ma hanno subito trasformazioni anche quartieri considerati periferici, convertiti in nuove centralità”. All’agopuntura urbana si affiancarono, poi, i progetti per aprire Barcellona al mare, recuperando il litorale dalla Barceloneta alla Mar Bella. “L’apertura verso il mare cancellò la storia delle popolazioni che vivevano nei quartieri lungo il litorale”.

L’azione più radicale riguardò il quartiere di Icaria, che venne raso al suolo per far spazio alla Vila Olimpica (Città Olimpica), un quartiere residenziale per ceti abbienti, a due passi dal mare. “E’ il quartiere dei premi Fad, premi d’architettura e interior design, istituiti da Oriol Bohigas, il principale ideologo dei criteri di trasformazione urbanistica della Barcellona democratica”. L’impatto delle archistar si rivela spesso devastante per gli equilibri sociali delle aree in cui operano. E la Vila Olimpica non fa eccezione, incarnando ancora, a decenni di distanza, l’immagine di un “non-quartiere”: composta da blocchi di edifici, progettati da famosi architetti e cinti da giardini privati, ospita vite indipendenti, senza punti d’incontro e relazione e senza attività commerciali. Un “non-quartiere” che esprime una concezione di città esclusiva ed escludente, a scapito dei tessuti sociali pre-esistenti. Un esempio lampante di come rigenerazione non costituisca di per sé una parola positiva, ma possa rivelarsi portatrice di effetti negativi, quando non tiene in considerazione il rispetto della storia di un luogo e dei suoi abitanti.

Città imprenditoriali per un necrourbanismo

Il geografo e urbanista David Harvey, uno dei massimi studiosi di Marx, sostiene che l’urbanizzazione capitalista svolge “un ruolo particolarmente attivo (insieme ad altri fenomeni come le spese militari) nell’assorbire le eccedenze che i capitalisti producono costantemente nella loro ricerca di plusvalore”. Come nota lo stesso autore, questo ruolo pare notevolmente aumentato da quando la crisi degli anni ’70 ha spinto le città a passare da una funzione manageriale, in cui gestivano le risorse fornitegli da Stati keynesiani, a una funzione imprenditoriale, in cui perseguono obiettivi di crescita e si pongono in competizione tra loro.

Il risultato di quest’ultima fase, quella neoliberista, è ciò che Marc Dalmau i Torvà definisce “necrourbanismo”. “Lo chiamo così perché è specialista nel generare spazi vivi per il capitale e per la circolazione delle merci e in cambio uccide, depreda tutti gli spazi pubblici, di convivialità, di reciprocità, di socialità, che è quello che in definitiva dovrebbe caratterizzare qualsiasi spazio pubblico”. La morte della città nella sua vera essenza. “Il capitalismo neoliberista sta uccidendo la dimensione umana delle città e sta costruendo un’altra cosa: metropoli, conurbazioni, spazi totalmente segregati, disciplinati dal perseguimento del plusvalore”. Con impatti tremendi sulla vita delle persone. “La nostra vita va a rotoli. A causa di questo modello, che durante molti anni è stato premiato e preso a riferimento da altre città, veniamo espulsi dai nostri quartieri, dove coltiviamo relazioni, ci aiutiamo e ci procuriamo i mezzi di sostentamento. Per gli urbanisti e i politici responsabili di questo sviluppo può essere un gioco, ma per noi, che siamo di carne e ossa e viviamo tra le pietre del nostro quartiere, è una questione vitale importantissima, perché perdiamo i nostri riferimenti, i nostri spazi comuni e i luoghi di cui ci appropriamo quotidianamente”.

C’è chi dice no

Ma Barcellona è una città tutt’altro che remissiva. Qui, le lotte non sono mai mancate. “Si è soliti pensare – spiega Giuseppe Aricò – che la protesta cittadina sia qualcosa di molto recente, relazionato, non solo qui ma in tutta la Spagna, con i movimenti del 15 maggio 2011 (giorno d’inizio delle proteste degli Indignados, che darà il nome al Movimento 15-M). Questo è un falso mito, perché le lotte hanno caratterizzato questa città sin dal principio del secolo scorso e non sono mai entrate in letargo. Piuttosto, sono state occultate”. Durante le Olimpiadi, ad esempio. “Una protesta nota come l’intifada del Besos (quartiere che deve il suo nome all’omonimo fiume, n.d.r.) riuscì a paralizzare un piano di costruzione di case in vista della celebrazione olimpica”. E da lotte più recenti, alla Barceloneta, usciranno le persone che fonderanno la PAH di Ada Colau.

Lotte che, nonostante qualche importante vittoria, non sono però riuscite a fermare l’onda della trasformazione neoliberista e della conseguente gentrificazione. Con qualche eccezione, come, per esempio, Can Battlò, ex fabbrica tessile ubicata a Santz, quartiere di grande tradizione operaia. Una storia che vale la pena di essere raccontata.

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La versione integrale del testo pubblicato è disponibile qui

Articolo di Alessandro Rizzi

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29 May 10:25

Non ne può fregar de meno!

by Vecchia Talpa
E' scoppiato la polemica fra i fedayn delle opposte fazioni circa via Primavera e le foto che continuano a circolare sull'asfalto si asfalto no, buche riparate si o no!Si continua a guardare aspetti particolari , ma solo per dire se era rigore o no senza guardare per intero i 90 minuti della partita ( visto che di fanclub si tratta)La Raggi ha messo a disposizione 85 milioni di euro spalmati in
10 May 15:48

Axel Honneth: L'idea di socialismo. Un sogno necessario, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 154, ISBN 978-88-0710-520-3

by Matteo Giangrande
10 May 15:48

Gennaro Imbriano: Le due modernità. Critica, crisi e utopia in Reinhart Koselleck, DeriveApprodi, Roma 2016, pp. 416, ISBN 978-88-6548-147-9

by Silvestre Gristina
10 May 15:48

Hegel, il fondamento e il postmoderno

by Remo Bodei
10 May 15:48

Medioevo e medievalismo tra Europa e America. L’attualità di un dibattito antico

by Marina Montesano

Where and when does our idea of the Middle Ages begin? The success of literary works in which the fantastic component is the backbone of an imaginary Middle Ages (let’s think about Tolkien or Martin) is rooted in the Anglo-Saxon tradition, then exported to the United States, where since the Eighteenth Century we can notice the development of a strong revival of Gothic style: hence it springs an idea, more or less historically founded, of Middle Ages. In the link between historical and fictitious reconstructions, North American architecture is a sort of petrified discussion about the problem of our perception of Gothic and, more generally, of an epoch whose fundamental characters are still subject to debate.

Keywords: Middle Age; Gothic style; Tolkien; Martin; American architecture.

10 May 15:48

La decadenza di una razza da Gobineau a Blum. L’immagine della Francia nelle pagine de “La difesa della razza”: nel laboratorio degli stereotipi antisemiti del regime fascista

by Francesco Germinario

From Telesio Interlandi to Julius Evola, fascist anti-Semitism revealed an almost non existent relationship with the political culture of the French anti-Semitism. Exponents of the French anti-Semitism of the late nineteenth century, starting with Drumont, remained unknown to the most important theorists of fascist racism. This stance  is due to different reasons. Meanwhile, French anti-Semitism, from Drumont to Maurras, had a strong anti-German characterization. This characterization was in contrast to fascist pro-German policy. Moreover, fascist anti-Semitism was one of the most politically radical voices of the territorial expansionism of the regime, claiming colonies (Tunisia) and French territories (Corsica). It started mainly from 1939, with anthropological and racial justifications. The only theorist of French anti-Semitism to find space in the political journalism of the regime  was Georges Montandon, exponent of the pro-Nazi collaborationism. However, Montandon's thesis didn't find space in the fascist debate on race, because his racism, with a strong ideological inclination, was considered to be in contrast to the " spiritual racism" of the regime.

Keywords: Fascist antisemitism; Territorial expansionism; Antisemitic criticism of democracy; Georges Montandon.

10 May 15:48

Il professore e l’operaio. Michelet nel ricordo di un comunardo

by Federico Martino

We present a diplomatic transcription (and a photographic reproduction) of the autograph draft of a detailed memory about the historian Jules Michelet, written a few days after his death by a journalist and politician who had assiduously frequented him between 1859 and 1867. The author, Pierre Denis, who played a non-marginal role during the Paris Commune, proves to be an attentive observer able to capture the essential elements of the personality and the method of a man considered “father of the historiography of France”. He provides us a portrait of this man and his time, lively and rich in insights. It is particularly interesting the Denis’ appreciation of Balzac’s works, a judgment that has strong analogies with Marx’s and Engels’ opinion,  (the Comedié humaine as a “realistic history of French society”).

Keywords: Denis; Michelet; Balzac; Marx; French social history.

10 May 15:48

Egemonia e pedagogia. Una critica delle interpretazioni di Gramsci

by Massimo Baldacci

In order to adequately deal with Gramsci's view of education, we can't remove the constitutive link of this theme with another issue, so crucial for him: the question of hegemony. We need therefore to quote the original debate that, in the second half of the Twentieth century, fixed the crucial importance of this term. But we need also to pursue our analysis of Gramsci's work in a rigorous diachronic perspective, looking at the whole evolution and route of his thought. Only in this way we can avoid partial interpretations of the question of hegemony. A partiality that fails the authentic perspective of Gramsci's pedagogy: emancipation, in a strong and universal sense that is strictly linked to philosophy of praxis.

Keywords: Gramsci; Education; Hegemony; Philosophy of praxis.

10 May 15:48

Una riflessione su Vico e il materialismo marxista nel Capitale

by Tom Rockmore

“Materialism,” which is central for Marxism, is apparently less important for Marx, who, after the “Theses on Feuerbach,” only rarely mentions it. In Capital, Marx mentions “materialism” only two times: in a passage on Giambattista Vico, an important eighteenth Italian philosopher, and in the Afterword to the second German edition in the famous comment on Hegelian dialectic. This paper concerns the reference to Vico. This reference is important in two ways: in calling attention to a basic similarity between Marx’s position and Vico’s constructivist approach to knowledge, and in suggesting Marx’s position is not science but rather a particular kind of philosophy.

Keywords: Marx; Vico; Materialism; Hegel; Capital.

10 May 15:48

Dono, ospitalità, democrazia

by Francesco Fistetti

Developing itself under the sign of neoliberalism and working for the sole pursuit of economic profit (with results whose evidence is there for everyone to see), the globalization of capitalism challenges our political thought. We need to understand that carrying on along the path of unlimited growth and according to today's dominant paradigms, we can witness a worsening of a situation that is already clearly unsustainable. The paradigm of gift, as identified by Mauss in his accusation of the “homo oeconomicus”, can be now the backbone of a new and “lateral” form of universalism (Merleau-Ponty). That is, for a sort of “pluriversalism” in which human affections and passions can acquire a new centrality, helping us in a re-institutionalization of the public space. Giving to our time a comprehensive vision of history, the new philosophy that we can call “convivialism” allow us to understand and live the global era, whit its endless alterations but also with its great opportunities.

Keywords: Globalization; Gift; Mauss; Convivialism.

10 May 15:47

Il materialismo storico oggi. Ripartire dal giovane Benedetto Croce?

by Claudio Tuozzolo

The young Croce conceives a historical materialism as a realistic reading of the historical world that is very different from the model of natural sciences.  This idea of historical materialism, born of a neo-Kantian idea, can be renewed today in a perspective that, like the one we propose here and according to some Marx’s suggestions, thinks the concrete human understanding as a form of “reproduction (reproduzieren)”. This new “realistic” historical materialism is a radical criticism of that sort of metaphysical-materialistic economicism involved in the ideology of contemporary financial capitalism. This is an ideology that compels men to self-conceive themselves as “type specimens” of a supreme Law, the Law of a new Providence: the “markets”.

Keywords: Historical realism; Conceptual reproduction of reality; Financial capitalism; Market as Providence.

10 May 15:47

Black like Mao. Cina rossa e rivoluzione nera

by traduzionimarxiste

Robin D. G. Kelly e Betsy Esch

Questa è l’epoca di Mao Tze-Tung, l’epoca della rivoluzione mondiale, e la lotta degli afroamericani per la liberazione è parte di un invincibile movimento globale. Il Presidente Mao è stato il primo leader mondiale  a portare la lotta del nostro popolo alla ribalta della rivoluzione mondiale

Robert Williams 1967 (1)

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“Il Presidente Mao è il grande liberatore del popolo rivoluzionario mondiale”

Sembrerebbe che il Presidente Mao, quantomeno dal punto di vista simbolico, sia oggetto di una rinnovata popolarità tra i giovani. Le sue immagini e idee ritornano costantemente in una miriade di contesti culturali e politici. The Coup, un celebre gruppo hip-hop della San Francisco Bay Area, ha posto Mao Zedong nel panteon degli eroi radicali neri, inscrivendo in tal modo le lotte per la libertà dei neri in un contesto internazionale. In un pezzo intitolato semplicemente “Dig It” (1993), The Coup si riferisce ai propri membri definendoli “i dannati della terra”, invita gli ascoltatori a leggere il Manifesto del partito comunista, ed evoca figure come Mao Zedong, Ho Chi Min, Kwame Nkrumah, H. Rap Brown, il movimento keniano dei Mau Mau e Geronimo Ji Jaga Pratt. In manira tipicamente maoista, il gruppo fa propria, parafrasandola, una delle più note citazioni di Mao “siamo coscienti che il potere sta sulla punta della pistola”(2). Anche considerando che i componenti di The Coup non erano neanche nati all’apogeo del maoismo nero, “Dig It” coglie lo spirito di Mao in relazione al mondo coloniale in generale – un mondo che comprendeva gli afroamericani. Nella Harlem di fine anni Sessanta inizio anni Settanta, si sarebbe detto che tutti possedevano una copia delle Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung (3), meglio noto come Libretto rosso. Di tanto in tanto, era possibile vedere i sostenitori del Black Panter Party venderlo agli angoli delle strade al fine di raccogliere fondi per il partito. Non di rado i giovani radicali neri si aggiravano per le strade vestiti come contadini cinesi, fatta eccezione, ovviamente, per il taglio afro e gli occhiali da sole.

Come l’Africa, la Cina era in movimento, ed era impressione condivisa che supportasse le lotte dei neri. In realtà era qualcosa di più che un’impressione: parte della comunità nera faceva realmente appello alla rivoluzione richiamandosi a Mao, così come a Marx e Lenin. Numerosi neri radicali, all’epoca, guardavano alla Cina, nonché a Cuba, al Ghana e persino a Parigi, come la terra nella quale una vera libertà era possibile. Certo, la Cina non era perfetta, ma pur sempre meglio che vivere nel ventre della bestia. Quando la dirigente delle Pantere nere, Elaine Brown, visitò Pecchino, nell’autunno del 1970, rimase favorevolmente sorpresa dalle realizzazioni della Rivoluzione cinese nel migliorare le condizioni di vita del popolo. “Anziani e giovani potrebbero dare testimonianze emozionanti, come battisti convertiti, delle glorie del socialismo” (4).

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Huey P. Newton e Zhou Enlai

Un anno dopo, vi ritornò, accompagnata da uno dei fondatori delle Pantere, Huey Newton, che descrisse così la propria esperienza in Cina, “una sensazione di libertà – come se la mia anima fosse stata alleggerita da un grande peso e io fossi in grado di essere me stesso, senza dovermi difendere per ciò, senza necessità o pretesa di dovermi spiegare. Mi sono sentito per la prima volta assolutamente libero – completamente libero tra i miei simili” (5). 

Più di un decennio prima che la Brown e Newton mettessero piede sul suolo cinese, W.E.B. Du Bois considerava la Cina come l’altro gigante addormentato, pronto a guidare le razze di colore nella lotta mondiale contro l’imperialismo. Egli vi si era recato per la prima volta nel 1936 – prima della guerra e della rivoluzione – nel corso di un lungo soggiorno in Unione Sovietica. Ritornandovi nel 1959, quando era illegale viaggiare in Cina, Du Bois scopriva un paese del tutto nuovo. Colpito dalla trasformazione intrapresa dai cinesi, in particolare da quella che percepiva come emancipazione della donna, ripartì convinto che la Cina avrebbe guidato le nazioni sottosviluppate verso il socialismo. “Dopo lunghi secoli, la Cina”, come ebbe a riferire a un uditorio di comunisti cinesi in occasione del suo novantunesimo compleanno, “si è sollevata sulle proprie gambe ed è balzata in avanti. Africa sollevati, sta dritta in piedi, parla e pensa! Agisci! Volta le spalle all’Occidente, alla schiavitù e umiliazione degli ultimi cinquecento anni e guarda al sole che sorge” (6).

La storia di come i radicali neri sono giunti a vedere nella Cina il faro della rivoluzione, e il pensiero di Mao quale sua linea guida, è complicata e affascinante, coinvolge letteralmente dozzine di organizzazioni e abbraccia gran parte del mondo – dai ghetti del nord america alle campagne africane. Di conseguenza il resoconto che segue non pretende di essere esaustivo (7). Nondimeno, abbiamo tentato in questo articolo di esplorare l’impatto del pensiero maoista, e della Repubblica popolare cinese più in generale, sul movimento radicale nero dagli anni Cinquanta sino ad almeno la metà degli anni Settanta. Indagheremo anche come il nazionalismo nero ha dato forma a dibattiti all’interno delle organizzazioni maoiste o “antirevisioniste” negli Stati Uniti. È nostra convinzione che la Cina abbia fornito ai radicali neri un esempio marxista “di colore”, o terzomondista, il quale ha permesso loro di sfidare una visione bianca e occidentale della lotta di classe – un modello che essi hanno modellato e rimodellato al fine di adattarlo alle loro realtà culturali e politiche. Sebbene il ruolo della Cina sia stato contraddittorio e problematico sotto diversi aspetti, il fatto che i contadini cinesi, contrariamente al proletariato europeo, abbiano fatto una rivoluzione socialista, e acquisito una posizione nella politica mondiale distinta dal campo sovietico e da quello statunitense, ha dotato i radicali neri di un profondo senso dell’importanza della rivoluzione e del potere. Infine, Mao non solo ha dimostrato ai neri del mondo intero che non dovevano attendere il maturare di “condizioni oggettive” per fare la rivoluzione, ma coll’importanza conferita alla lotta culturale ha profondamente orientato il dibattito circa la politica e l’arte nera.

La lunga marcia

Chiunque abbia familiarità col maoismo sa che non si è mai trattato di un ideologia compiuta mirante a rimpiazzare il marxismo-leninismo. Al contrario, essa ha invece segnato una svolta contro il “revisionismo” del modello sovietico post-staliniano. Il contributo di Mao al pensiero marxista è un risultato diretto della Rivoluzione cinese del 1949. L’insistenza di Mao riguardo all’indipendenza della capacità rivoluzionaria dei contadini rispetto al proletariato urbano attraeva particolarmente i radicali neri, scettici all’idea di dover aspettare il realizzarsi di condizioni oggettive per lanciare la loro rivoluzione. Centrale nel maoismo è l’idea che il marxismo possa (e debba) essere ridefinito in funzione delle esigenze temporali e geografiche, e che il lavoro pratico, le idee e la leadership derivino dal movimento delle masse e non da teorie prodotte nell’astratto o nell’ambito di altre lotte (8). In concreto, ciò significava che i veri rivoluzionari dovevano essere in possesso della volontà rivoluzionaria di vincere. La nozione di volontà rivoluzionaria non può essere sottovalutata, specialmente per gli appartenenti a movimenti isolati e sotto attacco su ogni lato. Armati della teoria appropriata, dell’adeguato comportamento etico e della volontà, i rivoluzionari, nelle parole di mao, possono “smuovere le montagne” (9). Probabilmente questo è il motivo per cui il dirigente comunista cinese Lin Biao ha potuto scrivere nella prefazione alle Citazioni, “Quando le larghe masse si saranno impadronite del pensiero di Mao Tze-Tung, esso diventerà una inesauribile sorgente di forza, una bomba atomica spirituale di potenza senza pari” (10)

Mao e Lin Biao riconoscevano che la fonte di una simile “bomba atomica” poteva essere individuata nelle lotte dei nazionalisti del terzo mondo. In un’epoca nella quale la Guerra fredda contribuiva all’emergere del movimento dei paesi non allineati, con l’incontro dei leader del mondo “di colore” a Bandung, in Indonesia nel 1955, nel tentativo di tracciare una via indipendente allo sviluppo, i cinesi speravano di indirizzare le ex-colonie nella strada verso il socialismo. I cinesi (basandosi sulla teoria di Lin Biao della “nuova rivoluzione democratica”) non solo conferivano alle lotte nazionaliste un valore rivoluzionario, ma tendevano la mano specificamente all’Africa e alle persone di origini africane. Due anni dopo la storica conferenza di Bandung, la Cina formava l’Organizzazione per la solidarietà dei popoli afroasiatici. Mao non solo invitò W.E.B. Du Bois a passare il proprio novantesimo compleanno in Cina dopo che questi era stato dichiarato nemico pubblico dagli Stati Uniti, ma tre settimane prima della grande marcia su Washington, nel 1963, rilasciò anche una dichiarazione nella quale criticava il razzismo americano e indicava il movimento di emancipazione degli afroamericani quale parte della lotta mondiale contro l’imperialismo. “Il crudele sistema del colonialismo e dell’imperialismo”, affermava Mao, “è sorto e ha prosperato dalla riduzione in schiavitù e dalla tratta dei neri, e scomparirà con la completa emancipazione del popolo nero” (11). Un decennio più tardi, il romanziere John Oliver Killens rimase sorpreso dal fatto che molti dei suoi libri, così come quelli di altri scrittori neri, era stato tradotto in cinese ed era ampiamente letto fra gli studenti. Dovunque andasse pareva che Killens incontrasse intellettuali e lavoratori “estremamente interessati al movimento dei neri e a come esso si riflettesse sull’arte e la letteratura degli stessi” (12).

Il loro status di persone di colore costituiva un potente strumento politico nel mobilitare il sostegno per gli africani  e le persone di origini africane. Nel 1963, per esempio, i delegati cinesi a Moshi, Tanzania, affermarono che i russi non avevano niente a che fare con l’Africa poiché erano bianchi. I cinesi, d’altra parte, venivano percepiti non solo come parte del mondo di colore, bensì anche come esenti da complicità nella tratta degli schiavi. Naturalmente, molte di queste affermazioni avevano la funzione di favorire la costruzione di alleanze. In realtà, a Guangzhou nel XII secolo vi erano schiavi africani, e alcuni studenti africani nella Cina comunista lamentarono di essere vittime di razzismo. (In effetti, dopo la  morte di Mao, i conflitti razziali nei campus universitari divennero più frequenti, in particolare a Shanghai nel 1979, a Nanjing nel 1980 e Tianjin nel 1986) (12). Inoltre, la politica estera cinese verso il mondo nero era guidata più da considerazioni di natura strategica che da un reale impegno a favore dei movimenti rivoluzionari del terzo mondo, in particolare dopo la rottura sino-sovietica. La posizione antisovietica della Cina implicò decisioni in politica estera che ne minarono la reputazione presso alcuni movimenti di liberazione africani. Nell’Africa australe, ad esempio, i cinesi supportavano movimenti che godevano anche dell’appoggio del regime dell’apartheid sudafricano (14).

Ciò nonostante, le idee di Mao ancora trovavano ascolto tra i radicali neri. Sebbene i progetti maoisti negli Stati Uniti non abbiano mai raggiunto il tipo di seguito ottenuto di partiti comunisti filo-sovietici negli anni Trenta, hanno comunque messo radici nel paese. E come i cento fiori, essi sono sbocciati in un confuso mosaico di voci radicali, tutte apparentemente in guerra l’un l’altra. Non sorprende che al centro dei loro dibattiti circa la natura della lotta di classe negli Stati uniti vi fosse la “questione nera”: quale ruolo avrebbe giocato la popolazione nera nella rivoluzione mondiale?

La rivoluzione nera mondiale

Popoli di tutto il mondo, unitevi per sconfiggere gli aggressori americani e tutti i loro lacchè! Popoli di tutto il mondo, fate affidamento sul vostro coraggio, osate combattere, sfidate le difficoltà, avanzate ondata dopo ondata e il mondo sarà vostro. I mostri saranno tutti annientati.

Mao Tze-Tung, “Dichiarazione in appoggio al popolo del Congo contro l’aggressione degli Stati Uniti (1964) (15)

Una rivoluzione è sul punto di travolgere l’intera Africa, l’Asia, l’America del sud, quella centrale e quella nera. 

Revolutionary Action Movement, The World Black Revolution (16)

Il maoismo negli Stati Uniti non venne importato dalla Cina. Se non altro per quei maoisti formatisi nella vecchia sinistra, le sue fonti possono essere rintracciate nelle rivelazioni di Chruščëv al XX congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica nel 1956, il quale suscitò un movimento anti-revisionista nella sinistra stalinista. A seguito dei dibattiti interni al Partito comunista degli Stati Uniti d’America (CPUSA) emersero numerose organizzazioni impegnate a riportare i comunisti nel campo stalinista; organizzazioni come il Provisional Organizing Committee (POC, 1958), Hammer and Steel (1960) e il Progressive Labor Party (PLP, 1965) (17).

Il PLP, un’emanazione del Progressive Labor Movement fondato tre anni prima, era inizialmente guidato da ex-comunisti convinti che i cinesi avevano adottato la posizione corretta. Insistendo sulla tesi che i lavoratori neri erano “la forza rivoluzionaria chiave” nella rivoluzione proletaria, il PLP attrasse alcuni prominenti attivisti neri come John Harris a Los Angeles e Bill Epton ad Harlem. Epton era divenuto una sorta di cause célèbre dopo esser stato arrestato per “anarchia criminale” durante i riots del 1964 (18). Due anni dopo, il PLP aiutava a organizzare uno sciopero studentesco al fine di istituire un programma di black studies alla SanFrancisco State University, e la sua Commission Black Liberation pubblicava un pamphlet intitolato Black Liberation Now!, il quale cercava di porre tutte queste ribellioni urbane in un contesto globale. Tuttavia, a partire dal 1968, il PLP abbandonava il proprio supporto al nazionalismo “rivoluzionario” concludendo che ogni forma di nazionalismo era reazionaria. Come risultato del suo convinto anti-nazionalismo il PLP si oppose a ogni tipo di affirmative action e a comitati latini e neri all’interno dei sindacati – posizioni che ne indebolirono il rapporto con gli attivisti della comunità nera. Di fatto, le relazioni del PLP con la nuova sinistra vennero compromesse in parte a causa dei suoi attacchi al Black Panther Party e al movimento studentesco nero. I membri del PLP vennero cacciati dal gruppo Students for a Democratic Society (SDS) nel 1969 con l’appoggio di diversi gruppi radicali nazionalisti, comprese le Pantere nere, i Young Lords e i Brown Berets (19).

Ciononostante, i partiti marxisti-leninisti-maoisti prevalentemente bianchi non furono il veicolo primario per la sinistra nera di ispirazione maoista. Non pochi radicali neri degli anni Cinquanta e Sessanta scoprirono la Cina tramite le lotte anticoloniali in Africa e la Rivoluzione cubana. L’indipendenza del Ghana nel 1957 costituì un avvenimento da celebrare, e l’assassinio di Ptrice Lumumba in Congo, col coinvolgimento della CIA, ispirò proteste da parte di tutti i circoli dell’attivismo nero. La Rivoluzione cubana e il celebre soggiorno di Castro all’Hotel Theresa di Harlem, durante la sua visita all’ONU, pose la gente di colore di fronte all’esempio di un socialista dichiarato che tendeva con solidarietà la mano alle persone di colore in tutto il mondo. Effettivamente, decine di radicali neri non solo difesero pubblicamente la Rivoluzione Cubana ma visitarono anche Cuba organizzati in gruppi come Fair Play for Cuba Committee (20). Tra di loro vi era Harold Cruse, un ex-comunista ancora legato al marxismo. Questi era convinto che le rivoluzioni cubana, cinese e africana potessero rivitalizzare il pensiero radicale, poiché avevano dimostrato il potenziale rivoluzionario del nazionalismo. In un provocatorio saggio pubblicato sul New Leader nel 1962, Cruse scriveva che la nuova generazione guardava al vecchio mondo coloniale per i suoi leader e idee, e che tra i suoi eroi vi era Mao:

All’epoca avevano già un panteon di eroi moderni – Lumumba, Kwame Nkrumah, Sekou Toure in Africa; Fidel Castro in America Latina; Malcolm X, il leader musulmano, a new York; Robert Williams nel sud; e mao Tze-Tung in Cina. Tali uomini apparivano come eroici agli afroamericani non a causa della loro filosofia politica, ma perché erano ex-colonizzati che avevano ottenuto l’indipendenza, o perché, come Malcolm X, avevano osato guardare in faccia la comunità bianca e dire: “noi non pensiamo che la vostra civiltà meriti gli sforzi dei neri per integrarvisi”. Questo per molti afroamericani era un atto di sfida autenticamente rivoluzionario (21).

In un altro saggio, comparso su Studies on the Left nel 1962, Cruse era ancor più esplicito circa il carattere globale del nazionalismo rivoluzionario. Egli sosteneva che la gente nera negli Stati Uniti viveva sotto una forma di colonialismo domestico, dunque le loro lotte andavano dovevano essere considerate parte di un movimento anticoloniale di portata mondiale. Così scriveva, “il fallimento dei marxisti americani nel comprendere il legame tra i neri e i popoli colonizzati del mondo li ha condotti a fallire nello sviluppare teorie valide per i neri degli Stati Uniti”. A suo modo di vedere, le ex-colonie rappresentavano l’avanguardia della rivoluzione, e nella prima linea di questa nuova rivoluzione socialista vi erano Cuba e la Cina (22).

Le rivoluzioni a Cuba, in Africa e Cina ebbero un effetto analogo su Amiri Baraka, il quale un decennio e mezzo dopo avrebbe fondato la Revolutionary Communist League (RCL) di ispirazione maoista. Segnato dalla sua visita a Cuba e dall’assassinio di Lumumba, Baraka iniziò a pubblicare saggi per un nuovo magazine intitolato African Revolution, curato dal leader nazionalista algerino Ben Bella. Come spiega Baraka,

India e Cina hanno conquistato la propria indipendenza formale prima degli anni Cinquanta, e col concludersi di quest’ultimi, vi sono numerose nazioni africane indipendenti (sebbene con gradi diversi di neocolonialismo). Il ghanese Kwame Nkrumah aveva issato la stella nera sulla presidenza ad Accra, inoltre i suoi discorsi e la notorietà dei suoi atti costituivano un luminoso incoraggiamento per i popoli di colore in tutto il mondo. Quando i cinesi hanno fatto esplodere la loro prima bomba atomica ho scritto un poema ne quale affermavo, in effetti, che il tempo per i popoli di colore era ricominciato (23).

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Malcolm X in Ghana con Maya Angelou, Julius Mayfield, Alice Windom e Vicki Garvin

Ma è probabilmente nella carriera di Vicki Garvin che la matrice Ghana-Cina si è incarnata al meglio; militante instancabile, la Garvin aveva frequentato i circoli della sinistra nera ad Harlem nel dopoguerra. Cresciuta in una famiglia operaia nera a New York, aveva trascorso le proprie estati lavorando nell’industria tessile per contribuire al reddito della famiglia. Sin dai suoi anni di liceo divenne attiva nei movimenti i contestazione neri, sostenendo gli sforzi di Adam Clayton Powell Jr. per ottenere lavori migliori condizioni salariali per gli afroamericani ad Harlem, nonché creare club  di storia nera dedicati alla costruzione di risorse documentarie. Dopo aver conseguito la laurea in scienze politiche all’unter College di Northampton e un master in economia allo Smith College, spese gli anni di guerra lavorando preso il National War Labour Board, continuando a svolgere un ruolo organizzativo per il United Office and Professionnal Workers of America (UOPWA)-CIO, e ricoprendo la funzione di direttore nazionale della ricerca e co-presidentessa del Pair Employment Practices Committee. Durante le purghe del dopoguerra contro la sinistra nel CIO [Congress of Industrial Organization, n.d.t.], la Garvin fu tra le voci più forti di protesta, oltreché un critico severo del fallimento da parte del CIO nell’organizzarsi al sud. In qualità di segretaria esecutiva della sezione newyorchese del National Negro Labor Council e vicepresidentessa dell’organizzazione a livello nazionale, stabilì legami stretti con Malcolm X aiutandolo nell’organizzazione di parte del suo viaggio in Africa (24).

La Garvin si unì all’esodo intellettuale nero verso il Ghana di Nkrumah, dove inizialmente risiedette insieme alla poetessa Maya Angelou per poi trasferirsi in un alloggio vicino a quello di Du Bois. Passo due anni ad Accra, circondata da numerosi intellettuali e artisti neri di primo piano, tra i quali Julian Mayfield, l’artista Tom feelings e il fumetista Ollie Harrington. Come radicale che aveva insegnato inglese colloquiale negli ambenti diplomatici cubani, algerini e cinesi in Ghana, le sarebbe stato assai difficile non sviluppare un profondo punto di vista internazionalista. Le conversazioni con Du Bois negli ultimi giorni della sua permanenza in Ghana non fecero che rafforzare il suo internazionalismo e accendere il suo interesse nei confronti della rivoluzione Cinese. In effetti, grazie a Du Bois, la Garvin ottenne un lavoro come “correttore” per le traduzioni inglesi della Pekin Review, nonché un posto di insegnante allo Shanghai Foreign Language Institute. In Cina trascorse gli anni dal 1964 al 1970, costruendo ponti tra le lotte per la libertà dei neri, i movimenti d’indipendenza africani e la Rivoluzione cinese (25).

Per Huey Newton, futuro fondatore del Black Panther Party, la rivoluzione africana pareva anche meno decisiva degli eventi svoltisi a cuba e in Cina. Come studente del Merritt College nei primi anni Sessanta egli lesse un po’ di esistenzialismo, iniziando a frequentare incontri organizzati dal Progressive Labour party e a sostenere la rivoluzione Cubana. Non sorprende che Newton iniziasse a leggere voracemente la letteratura marxista. In particolare Mao lasciò in lui un’impressione duratura: “La mia conversione fu completa quando lessi i quattro volumi di Mao Tze-Tung per saperne di più a poposito della Rivoluzione cinese” (26). In tal modo, ben prima della fondazione del Black Panther party, Newton aveva subito l’influenza del pensiero di Mao Zedong, così come degli scritti di Che Guevara e Frantz Fanon. “Mao, Fanon e Guevara hanno tutti affermato chiaramente che i popoli sono stati spogliati dei loro diritti inalienabili e della dignità, non attraverso una filosofia o semplici parole, ma sotto la minaccia delle armi. Essi sono stati vittime di una rapina orchestrata da gangster, nonché di uno stupro; per loro l’unico mezzo per guadagnare la libertà è consistito nel rispondere alla forza con la forza” (27). La volontà dei cinesi e dei cubani di “rispondere alla forza con la forza” era anche motivo del fascino esercitato da queste rivoluzioni presso i radicali neri nell’epoca della resistenza passiva e nonviolenta. Naturalmente, questo periodo ebbe la sua parte di lotte armate nel sud, con gruppi come Deacons for Defense and Justice e il Movimento di Cambridge di Gloria Richardson a difesa, quando necessaria, dei manifestanti nonviolenti. Tuttavia, la figura che meglio incarnò la tradizione nera dell’autodifesa armata fu Robert Williams, eroe della nuova ondata di internazionalisti neri, la cui importanza rivaleggia almeno con quella di Malcolm X (28). Ex marine, dotato di un avanzato addestramento militare, Williams ottenne notorietà nel 1957 per aver formato dei gruppi di autodifesa armati a Monroe nel North Carolina, al fine di combattere il Ku Klux Klan. Due anni dopo, la sua dichiarazione secondo la quale i neri dovevano “rispondere alla violenza con la violenza”, in quanto unico mezzo per fermare l’ingiustizia in un sud incivile, portò alla sua sospensione dalla carica di presidente della sezione di Monroe della NAACP [National Association for the Advancement of Colored People, n.d.t.].

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Robert e Mabel Williams

La rottura di Williams con la NAACP e il suo schierarsi apertamente a favore dell’autodifesa armata lo spinsero ancor più a sinistra, nell’orbita del  Socialist Workers Party, del Workers World Party e di alcuni membri del vecchio CPUSA. Nel 1961, a seguito di accuse di sequestro montate ad arte e di un mandato d’arresto federale, Williams e la sua famiglia si videro costretti a lasciare il paese per cercare asilo politico a Cuba. Durante i quattro anni successivi, Cuba divenne per Williams la base da cui promuovere la rivoluzione mondiale nera ed elaborare un’ideologia internazionalista che abbracciasse il nazionalismo nero e la solidarietà verso il terzo mondo.

Il Revolutionary Action Movement

La fuga di Williams a Cuba ispirò in parte la fondazione del Revolutionaty Action Movement (RAM). In Ohio, intorno al 1961, i membri neri di Students for a Democratic Society (SDS), così come attivisti del Student Non violent Coordinating Committee (SNCC) e del Congress of Racial Equality (CORE), si riunirono in un piccolo gruppo al fine di discutere il significato del lavoro di Williams, a Monroe e nel successivo esilio. Guidato da Donald Freeman, uno studente nero della Case Western Reserve a Cleveland, il nucleo del gruppo era costituito da una nuova organizzazione di studenti del Central State College di Wilberforce autonominatasi Challenge. I componenti di Challenge furono segnati in particolare dal saggio di Cruse, “Revolutionary Nationalism and the Afro-American” (29), il quale ebbe un’ampia diffusione tra i giovani militanti neri. Ispirato dall’interpretazione proposta da Cruse dell’importanza globale delle lotte per la libertà dei neri,  Freeman sperava di trasformare Challenge in un movimento rivoluzionario nazionalista analogo alla Nation of Islam, ricorrendo però alle tattiche di azione diretta del SNCC. A seguito di un lungo dibattito, i membri di Challenge decisero di sciogliere l’organizzazione nella primavera del 1962 e dare vita al Revolutionary Action Movement (RAM, originariamente denominato “Reform” Action Movement, in modo da non spaventare l’amministrazione universitaria), con ai suoi vertici Freeman, Max stanford e Wanda Marshall. Pochi mesi dopo, la base del movimento venne spostata a Philadelphia, dando inizio alla pubblicazione del bimensile Black America e un bollettino d’informazione intitolato RAM Speaks; il progetto era quello di costruire un movimento di scala nazionale orientato al nazionalismo rivoluzionario, all’organizzazione dei giovani e all’autodifesa armata; alcuni attivisti di Philadelphia vennero reclutati, inclusa Ethel Johnson (che aveva lavorato con Williams a Monroe), Stan Daniels e Playthell Benjamin (30).

Il RAM rappresentò il primo serio e duraturo tentativo del dopoguerra di coniugare il marxismo, il nazionalismo nero e l’internazionalismo terzomondista in un coerente programma rivoluzionario. Nelle parole di Max Stanford, il RAM “tentava di applicare il pensiero marxista-leninista e di Mao Tze-Tung” alle condizioni della gente nera e “sosteneva la teoria secondo la quale il movimento di emancipazione dei neri negli Stati Uniti era parte dell’avanguardia della rivoluzione socialista mondiale” (31). Inoltre,  oltre a guardare all’esempio di Robert Williams, i giovani militanti del RAM cercarono una guida politica presso alcuni vecchi ex-comunisti neri espulsi per “ultrasnistrismo” o per “nazionalismo borghese”, o che avevano abbandonato il partito a causa del suo “revisionismo”. In questo gruppo di vecchi militanti vi erano Hrold Cruse, Harry Haywood, Abner Berry e “Queen Mother” Audley Moore. Quest’ultima sarebbe diventata un’importante mentore per il RAM nell’East Coast, fornendo ai suoi membri una formazione incentrata sul pensiero nazionalista nero e sul marxismo. L’abitazione di Queen Mother, da le affettuosamente chiamata  Mont Addis-Abeba, servì praticamente da scuola per una nuova generazione di giovani radicali neri. La Moore aveva fondato l’African-American Party of National Liberation nel 1963, il quale formò un governo provvisorio eleggendo Robert Williams come primo ministro in esilio (32). I membri del RAM si rivolsero anche verso i leggendari ex-trotzkisti di Detoit James e Grace Lee Boggs, che avevano militato al fianco di C.L.R. James, e i cui scritti marxisti e pan-africanisti influenzarono profondamente i militanti del RAM al pari di altri attivisti della nuova sinistra (33).

Crescendo il RAM sviluppo un seguito in altre parti del paese, per quanto continuasse a essere semi-clandestino e poco strutturato. Proprio come l’African Blood Brotherhood degli anni Venti o il gruppo di intellettuali radicali che pubblicavano Studies on the Left, il RAM diede un contributo alle lotte che rimase in larga parte al livello della teoria. Nel sud il RAM riuscì a costruirsi un piccolo ma significativo seguito alla Fisk University, terreno di formazione per numerosi attivisti di primo piano del SNCC. Nel maggio del 1964, per esempio, i membri del RAM tennero la prima Conferenza studentesca afroamericana sul nazionalismo nero nel campus della Fisk (34). Nel nord della California, il RAM crebbe innanzitutto come emanazione della Afro-American Association. Fondata da Donald Warden nel 1962, la Afro-American Association era costituita da studenti della University of California a Berkeley e del Merrit College – molti dei quali, come Leslie e Jim Lacy, Cedric Robinson, Ernest Allen e Huey Newton, avrebbero giocato un ruolo importante come attivisti/intellettuali radicali. A Los Angeles, il suo presidente era il giovane Ron Everett, il quale avrebbe in seguito cambiato nome in Ron Karenga e fondato la US Organization. La Afro-American SocietyAssociation ben presto sviluppo una reputazione come gruppo di intellettuali militanti pronti a dibattere con chiunque. Sfidando i docenti, discuttendo con gruppi come la Young Socialist Alliance e tenendo letture pubbliche di storia e cultura nere, questi giovani uomini lasciarono un’impressione profonda fra gli studenti e la comunità nera in generale. Nella East Bay, dove la tradizione dei comizi improvvisati era morta negli anni Trenta, eccezion fatta per le campagne individuali portate avanti dal Civil Rights Congress guidato dai comunisti nei primi anni cinquanta, l’Afro-American Association era una prova vivente che una cultura intellettuale militante, dinamica e visibile, poteva ancora esistere.

Nel frattempo, Progressive Labor (PL) aveva iniziato a finanziare viaggi a Cuba e a reclutare diversi studenti radicali neri nell’East Bay. Tra loro Ernest Allen, studente del Merritt college trasferitosi a Berkeley che era stato costretto a lasciare l’Afro-America Asociation. Cresciuto negli ambienti della classe operaia di Oakland, Allen faceva parte di una generazione di radicali neri la cui insoddisfazione, rispetto alla strategia della resistenza passiva nonviolenta del movimento per i diritti civili, li avvicinava a Malcolm X e ai movimenti di liberazione del terzo mondo. Non stupisce che Allen abbia scoperto il RAM tramite il suo viaggio a Cuba nel 1964. Tra i suoi compagni di viaggio vi era un contingente di militanti neri di Detroit: Luke Tripp, Charles (“Mao”) Johnson e General Baker. Tutti erano membri del gruppo studentesco Uhuru, e avrebbero avuto un ruolo chiave nella formazione del  Dodge Revolutionary Union Movement (DRUM) e della League of Revolutionary Black Workers. Incredibilmente, Max Stanford si trovava già sull’isola per incontrare Robert Williams. Sulla via del ritorno negli Stati Uniti, Allen e il gruppo di Detroit si incaricarono di partecipare alla costruzione del RAM. Allen si fermò a Cleveland per incontrare i membri del RAM nel corso del suo viaggio in bus attraverso il paese per ritornare a Oakland. Armato di copie della rivista Crusadr di Williams e di documenti prodotti dal RAM, Allen fece ritorno a Oakland intenzionato a stabilire una presenza del movimento nell’East Bay.

Mai composto da più di un pugno di persone – tra le quali Isaac Moore, Kenn Freeman, Bobby Seale (uno dei futuri fondatori del Black Panther Party) e Doug Allen (il fratello di Earnie) – il gruppo stabilì una base al Merritt College tramite il Soul Students Advisory Council. La presenza intellettuale e culturale del gruppo, tuttavia, non mancò di farsi sentire diffusamente. Allen, Freeman e altri, fondarono una rivista intitolata Soulbook: The Revolutionary Journal of the Black World, nella quale veniva pubblicata prosa e poesia il cui orientamento poteva essere ben descritto come nazionalista nero di sinistra. Freeman, in particolare, era assi rispettato tra gli attivisti del RAM e ampiamente letto. Egli spingeva costantemente i membri del gruppo a pensare le lotte dei neri in un contesto globale. Gli editori di Soulbook, inoltre, svilupparono legami con esponenti radicali neri della vecchia sinistra, in particolare con l’ex-comunista Harry Haywood, del quale pubblicarono i lavori in uno dei primi numeri (35).

Per quanto il RAM come movimento non abbia mai ricevuto la notorietà e la pubblicità accordata a gruppi come il Black Panther Party, la sua influenza sorpassò di gran lunga il numero dei suoi componenti – un po’ come l’African Blood Brotherhood (ABB) quattro decenni prima. In effetti, proprio come l’ABB, il RAM rimase in gran parte un’organizzazione semi-clandestina dedita prevalentemente alla propaganda piuttosto che a organizzarsi affettivamente.  Leader come Max Stenford si identificavano con i contadini cinesi ribelli che avevano condotto il Partito comunista alla vittoria. Essi riprendevano la celebre espressione di Mao: “quando il nemico avanza, noi ripieghiamo; quando si accampa, compiamo azioni di disturbo; quando è stanco, attacchiamo; il nemico si ritira, noi lo inseguiamo” (36). Prendevano Mao alla lettera, invocando l’insurrezione armata, traendo ispirazione e idee dalla teoria della guerriglia urbana negli Stati Uniti di Williams. I leder del RAM erano intimamente convinti che una simile guerra non solo fosse possibile, ma che potesse essere vinta in novanta giorni. La combinazione del caos di massa e della disciplina rivoluzionaria costituiva la chiave della vittoria. Il numero dell’autunno 1964 di Black America prediceva l’Aramgeddon:

Gli uomini e le donne nere nelle forze armate diserteranno e si uniranno alle forze di liberazione nere. I bianchi che sosterranno di voler aiutare la rivoluzione saranno mandati nelle comunità bianche a dividerle, combattere i fascisti e frustrare gli sforzi delle forze controrivoluzionarie. Il caos sarà ovunque e con l’interruzione delle comunicazioni di massa le sommosse esploderanno in gran numero in tutti i settori del governo degli oppressori. La borsa crollerà; Wall Street smetterà di funzionare; Washington verrà travolta dai tumulti. I funzionari fuggiranno dappertutto – fuggiranno per salvare le proprie vite.  I George Lincoln Rockefeller, Kennedy, Vanderbilt, Hunt, Johnson, Wallace, Barnett, ecc., saranno i primi a scappare. La rivoluzione “colpirà di notte e non risparmierà nessuno”… la rivoluzione nera ricorrerà al sabotaggio nelle città, mettendo fuori uso prima la corrente elettrica, poi i trasporti, estendendo la guerriglia alle campagne del sud. Con le città impotenti, gli oppressori saranno indifesi (37).

La rivoluzione era chiaramente vista come un lavoro da uomini, considerato che le donne comparivano a malapena nell’equazione. Effettivamente, uno dei fatti più eclatanti della storia della sinistra anti-revisionista è a qual punto essa fosse dominata dagli uomini. Sebbene Wanda Marshall sia stata una delle fondatrici del RAM, non occupava alcun ruolo direttivo, a livello nazionale, nel 1964. Al di là della promozione di “leghe femminili”, il cui obiettivo doveva essere quello di organizzare le donne nere che lavoravano nelle case dei bianchi, il RAM rimase relativamente silente circa l’emancipazione delle donne.

L’orientamento maschilista del RAM ha molto a che vedere col fatto che i suoi leader si vedevano come guerriglieri urbani, membri di una versione nera dell’Armata rossa di Mao. Certo, non tutti adottavano un simile punto di vista, ma coloro che lo condividevano si affidavano pienamente a una serie di prescrizioni etiche elaborate da Mao per i quadri del suo partito e per i membri dell’armata popolare. Lo si può vedere chiaramente nel “Codice dei quadri” del RAM, una serie di regole di condotta fortemente didattiche secondo le quali i membri erano tenuti a vivere. Alcuni esempi:

Un nazionalista rivoluzionario mantiene il massimo rispetto per ogni autorità all’interno del partito.

Un nazionalista rivoluzionario non si fa corrompere dal denaro, dagli onori e da qualsiasi altra forma di beneficio personale.

Un nazionalista rivoluzionario subordinerà senza esitazione il suo interesse personale a quello dell’avanguardia.

Un nazionalista rivoluzionario manterrà il più alto livello di moralità e non prenderà mai uno spillo o un pezzo di filo dalle masse – i fratelli e le sorelle terranno il più alto rispetto l’uno per l’altro e non abuseranno o approfitteranno mai l’uno del’altro per guadagno personale – e non traviseranno mai la dottrina del nazionalismo rivoluzionario per nessuna ragione (38).

Le analogie con le Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung sono evidenti. L’ultimo esempio citato, proviene direttamente da una delle “tre grandi regole di disciplina” di Mao, il quale esorta i quadri a “non prendere alle masse neanche un ago o un pezzo di filo”. L’altruismo e la devozione nei confronti delle masse è un altro tema dominante delle Citazioni. Ancora una volta, le somiglianze sono degne di nota: “Mai, in nessun momento e in nessuna circostanza”, afferma Mao, “un comunista deve mettere al primo posto i suoi interessi personali; deve invece subordinarli agli interessi della nazione e delle masse. Perciò l’egoismo, la pigrizia nel lavoro, la corruzione, la smania di mettersi in vista e via dicendo sono quanto di più spregevole esista; mentre l’altruismo, l’ardore nel lavoro, la completa dedizione al dovere pubblico e l’assiduo, duro lavoro impongono rispetto” (39).

L’enfasi posta dal maoismo sull’etica rivoluzionaria e sulla trasformazione morale, quantomeno in teoria, trovava eco nella tradizione religiosa nera (e nel protestantesimo americano più in generale) e, come la Nation of Islam, i maoisti neri predicavano l’autocontrollo, l’ordine e la disciplina. Non è da escludere che nel mezzo di una controcultura comprendente un elemento edonistico e l’uso di droghe, una nuova ondata di studenti radicali di estrazione operaia trovasse l’etica maoista attrattiva. Al suo rientro dalla Cina, Robert Williams – per certi aspetti il padre fondatore del RAM – insisteva perché ogni giovane attivista nero “intraprendesse una trasformazione personale e morale. Vi è la necessità di uno stringente e rivoluzionario codice di etica morale. I rivoluzionari sono strumenti di rettitudine” (40). Per i rivoluzionari neri, la dimensione morale ed etica del pensiero di Mao era incentrata sulla nozione di trasformazione personale. Si trattava di una lezione familiare, incarnata nelle vite di Malcolm X e (in seguito) George Jackson: l’idea che un individuo possedesse la volontà rivoluzionaria di trasformare se stesso. (Questo genere di narrazione era quasi esclusivamente maschile malgrado il crescente numero di memorie scritte da donne nere radicali). Che i membri del RAM vivessero o meno secondo il “Codice dei quadri”, l’etica maoista serviva, in fin dei conti, a rafforzare lo status di Malcolm X quale modello rivoluzionario.

Il programma in dodici punti del RAM faceva appello allo sviluppo di scuole di libertà, organizzazioni di studenti neri, club di tiro, cooperative agricole nere – non solo al fine dello sviluppo economico, bensì per preservare “le forze della comunità e della guerriglia” – e un’armata guerrigliera di liberazione composta di giovani e disoccupati. Il RAM poneva un’enfasi particolare sull’internazionalismo, invocando il supporto a favore dei movimenti di liberazione in Africa, Asia e America Latina, nonché l’adozione del “socialismo panafricano”. In linea col l’influente saggio di Cruse, “Revolutionary Nationalism and the Afro-American”, i membri del RAM vedevano se stessi come colonizzati che conducevano “una guerra coloniale in casa”. Come scrisse Stanford in un documento interno, intitolato “Projects and Problems of the Revolutionary Movement” (1964), “la posizione del RAM e che l’afroamericano non è un cittadino degli Stati Uniti, privato dei suoi diritti, quanto un soggetto coloniale asservito. Una posizione secondo la quale la gente nera negli Stati Uniti costituisce una nazione prigioniera e repressa, la cui lotta non è per l’integrazione nella comunità bianca, bensì per la liberazione nazionale” (41).

In quanto soggetti coloniali con diritto all’autodeterminazione, il RAM considerava gli afroamericani come membri di fatto delle nazioni non-allineate. I militanti del RAM si spingevano a identificavano se stessi come parte del “mondo di Bandung”, arrivando a organizzare una conferenza a Nashville, nel novembre del 1964, intitolata ” The Black Revolution’s Relationship to the Bandung World”. In un articolo del 1965 pubblicato sul giornale del RAM Black America, i militanti iniziarono a sviluppare la teoria dell'”umanesimo di Bandung” o dell'”internazionalismo rivoluzionario nero”, secondo la quale la battaglia fra il mondo occidentale e il terzo mondo – più che la lotta tra lavoro e capitale – rappresentava la contraddizione fondamentale dell’epoca. Essi collegavano la lotta per l’emancipazione degli afroamericani con ciò che stava accadendo in Cina, a Zanzibar, a Cuba, in Vietnam, Indonesia e Algeria, caratterizzando il proprio lavoro come parte della strategia internazionale di Mao, consistente nell’accerchiare i paesi capitalisti occidentali e sfidare l’imperialismo. Dopo il 1966, la locuzione “umanesimo di Bandung” venne interamente rimpiazzata da “internazionalismo nero”.

Cosa si dovesse intendere con “internazionalismo nero” lo si spiegava in un audace pamphlet di trentasei pagine pubblicato dal RAM nel 1966, intitolato The World Black Revolution. Vagamente modellato sul Manifesto del partito comunista, il pamphlet simpatizzava fortemente con la Cina contro l’occidente capitalista e l’impero sovietico. “L’emergere della Cina rivoluzionaria inizia a polarizzare le contraddizioni di casta e di classe nel mondo, sia nel campo borghese imperialista che in quello borghese comunista-socialista europeo” (42). In altre parole, la Cina veniva considerata il cuneo in grado di allargare le contraddizioni tra i popoli colonizzati e l’occidente. Respingendo l’idea che la rivoluzione sarebbe scoppiata nei paesi sviluppati dell’occidente, secondo il RAM l’unica vera soluzione rivoluzionaria consisteva nella “dittatura del sottoproletariato nero su scala mondiale attraverso la rivoluzione nera globale”. Ovviamente, gli autori non lavoravano con definizioni attuali; il RAM usava il termine “sottoproletariato” includendovi tutte le popolazioni di colore dell’Asia, dell’America Latina, dell’Africa e ovunque si trovassero; “sottoproletariato nero” era semplicemente sinonimo di mondo coloniale. la cina sosteneva una durissima lotta per difendere la propria libertà. Era giunto il momento per il resto del mondo “nero” di seguirne l’esempio:

Il sottoproletariato nero ha un solo modo per liberarsi dal colonialismo, dall’imperialismo, dal capitalismo e dal neocolonialismo; ossia, distruggere la civilizzazione (borghese) occidentale (le città del mondo) tramite una rivoluzione nera globale, stabilendo una dittatura rivoluzionaria nera su scala mondiale, mettendo fine allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo perché un nuovo e rivoluzionario mondo possa vedere la luce (43).

Al fine di coordinare una simile rivoluzione, il RAM auspicava la creazione di un’Internazionale nera, nonché di un'”Armata di liberazione popolare su scala mondiale”.

Nonostante il suo veemente nazionalismo, The World Black Revolution giungeva alla conclusione secondo la quale il nazionalismo nero era “realmente internazionalista”. Solo attraverso la demolizione del nazionalismo bianco/potere bianco si poteva ottenere la liberazione per tutti. Non soltanto i confini nazionali scompariranno con “la dittatura del sottoproletariato nero”, ma persino “la necessità del nazionalismo, nella sua forma più aggressiva, verrà eliminato” (44). Si trattava di un’affermazione notevole considerate le radici sociali e ideologiche del RAM. Tuttavia, lungi dal rappresentare una posizione unitaria, tale dichiarazione rifletteva le varie e persistenti tensioni dalle quali era segnata la storia del RAM. Da un lato vi erano i nazionalisti, convinti che i rivoluzionari innanzitutto avrebbero dovuto lottare per la nazione nera e costruire il socialismo separatamente dal resto degli Stati Uniti. Dall’altro lato, socialisti come James e Grace Boggs, i quali volevano sapere chi avrebbe governato la nazione “bianca”, e quali conseguenze una simile presenza avrebbe  comportato per la libertà nera. Questi ultimi rigettavano anche gli sforzi miranti a riproporre la tesi  della “nazione nera” – la vecchia linea comunista in base alla quale le persone negli stati a maggioranza nera del sud (la cosiddetta “black belt”) avevano il diritto alla secessione dall’unione. I Boggs e i loro sostenitori, ribattevano che la reale fonte del potere risiedeva nelle città, non nella rurale black belt. Nel gennaio del 1965, James Boggs si dimetteva dal suo incarico di capo ideologico.

Dopo aver trascorso anni come organizzazione semi-clandestina, il RAM venne identificato, in una serie di “rivelazioni” pubblicate dalle riviste Life (45) e Esquire (46), come uno dei principali gruppi estremisti impegnati nel “cospirare contro i bianchi”. Il gruppo “spalleggiato da Pechino” veniva considerato nono solo armato e pericoloso, ma anche “particolarmente ferrato riguardo la letteratura rivoluzionaria – da Marat a Lenin, sino a Mao, Che Guevara e Franz Fanon”. (La sezione di Harlem del Progressive Labor Party rispose agli articoli con un pamphlet intitolato The Plot Against Black America, nel quale si sosteneva che la Cina non finanziava la rivoluzione, bensì dava un esempio rivoluzionario tramite il suo fermo antimperialismo. Le reali cause della rivolta nera, affermava il pamphlet, andavano rintracciate nelle condizioni di vita del ghetto) (47). Non stupisce che a simili articoli, largamente pubblicizzati, seguissero una serie di irruzioni della polizia nelle abitazioni dei membri del RAM a Philadelphia e New York. Nel giugno del 1967, i membri del RAM vennero arrestati e accusati di cospirazione finalizzata a istigare sommosse, l’avvelenamento  di ufficiali di polizia con cianuro di potassio, nonché l’omicidio di Roy Wilkins e Whitney Young.  Un anno dopo, nel clima di repressione creato dal Counter Intelligence Program dell’FBI (COINTELPRO), il RAM si trasformava nel Black Liberation Party, conosciuto anche come African American Party of National Liberation. Nel 1969, il RAM era pressoché sciolto, sebbene i suoi membri avessero optato per “fondersi nella comunità e infiltrarsi nelle organizzazioni nere esistenti”, continuando a promuovere i dodici punti del proprio programma e sviluppando gruppi di studio sulla “scienza dell’internazionalismo nero, e il pensiero del presidente Rob [Robert] Williams (48).

L’operazione COINTELPRO spiega solo in parte la dissoluzione del RAM. Alcuni dei suoi membri passarono ad altre organizzazioni, come la Republic of New Africa e il Black Panther Party. Ma il declino nel numero di aderenti e infine la scomparsa si possono in parte attribuire a errori strategici.  In effetti, l’interpretazione da parte dei suoi membri della situazione dei ghetti e le loro strategie di mobilitazione suggeriscono non si trattasse, in fin dei conti, di maoisti conseguenti. L’insistenza di Mao circa la natura prolungata della rivoluzione non veniva presa sul serio; al punto che il RAM, come già notato, arrivò a suggerire che la guerra per la liberazione sarebbe probabilmente durata solo novanta giorni. E poiché i leader del RAM si concentravano sullo scontro frontale con lo stato e sull’attacco contro i leader neri da loro considerati riformisti, essi fallirono nel costruire una base ampia nelle comunità nere urbane. Inoltre, malgrado il loro fervente internazionalismo, non riuscirono a coinvolgere le altre “nazionalità” oppresse negli Stati Uniti. Ciò nondimeno, il RAM e Williams riuscirono a elevare il nazionalismo nero rivoluzionario a una posizione di primaria importanza teorica per la sinistra anti-revisionista in generale. Essi fornirono un esempio organizzativo e pratico di ciò che Harold Cruse, Franz Fanon e Malcolm X cercavano di promuovere nei loro scritti e discorsi. Ancor più importante, trovarono una giustificazione teorica per il nazionalismo nero rivoluzionario nel pensiero di Mao Zedong, specie dopo l’inizio della Rivoluzione culturale in Cina.

Il ritorno della Black Belt 

Al di là del giudizio che si può avere riguardo alla Rivoluzione culturale, essa proiettò nel mondo – in particolare per coloro che nutrivano simpatia per la Cina e per i movimenti rivoluzionari in generale – una visione della società in cui le divisioni tra i potenti e i deboli sfumavano, lo status sociale e il privilegio non distinguevano necessariamente governanti e governati. I marxisti Paul Sweezy e Leo Huberman, curatori della rivista socialista indipendente Monthly Review, riconoscevano le enormi implicazioni che una tale rivoluzione aveva per le aree urbane povere degli Stati Uniti: “si immagini soltanto cosa accadrebbe negli Stati Uniti se un presidente invitasse i poveri di questo paese, in particolare i neri dei ghetti urbani, a portare avanti autonomamente la lotta alla povertà, garantendo loro la protezione del’esercito contro le rappresaglie!” (49). Naturalmente, i neri negli Stati Uniti non erano considerati dallo stato come “il popolo”. I loro problemi non erano altro che un peso per la società, e la loro ingratitudine simboleggiata da sommosse e proliferare di organizzazioni rivoluzionarie non suscitava molta simpatia per i neri poveri.

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“Fermo sostegno alla giusta lotta dei neri americani”

Agli occhi di molti militanti della nuova sinistra, gli afroamericani rappresentavano non solo “il popolo” ma anche il settore più rivoluzionario della classe lavoratrice. L’enfasi posta dalla Rivoluzione culturale sull’eliminazione delle gerarchie, e sulla presa del potere da parte degli oppressi, rafforzava l’idea che la liberazione dei neri fosse il cuore della nuova rivoluzione americana. Lo stesso Mao Zedong accreditò una simile concezione nella sua diffusissima dichiarazione dell’aprile 1968 “In sostegno della lotta degli afroamericani contro la repressione violenta”. Una dichiarazione rilasciata durante una dimostrazione di massa tenutasi in Cina in occasione dell’assassinio di Martin Luther King Jr., nella quale Robert Williams e Vicki Garvin figuravano tra i principali oratori. A detta della Garvin, “milioni di manifestanti cinesi” marciarono sotto una pioggia battente denunciando il razzismo americano (50). Parlando della rivolta causata dall’assassinio di King, Mao caratterizzava queste insurrezioni urbane come “un nuovo richiamo rivolto a tutti i popoli sfruttati e oppressi degli Stati Uniti a lottare contro il barbaro dominio della classe capitalista monopolista” (51). Ancor più della sua dichiarazione del 1963, le parole di Mao conferivano alle rivolte urbane un’importanza storica nel contesto delle sollevazioni rivoluzionarie.

Il Black Panther Party

È nel contesto delle ribellioni urbane che alcune correnti del radicalismo nero, incluso il RAM, convergerono dando vita al Black Panther Party for Self Defense a Oakland, California. Forse, le Pantere, furono l’organizzazione nera che più visibilmente promosse il pensiero di Mao Zedong; a detta di alcuni, tuttavia, erano probabilmente meno seri nella lettura degli scritti marxisti, leninisti o maoisti e nello viluppo di un’ideologia rivoluzionaria. Fondato da Huey Newton e Bobby Seale, un ex membro del RAM, il partito andò ben oltre i confini del Merritt College reclutando tra il “lumpenproletariat”. Buona parte della base era impegnata più che altro nella propaganda, e la loro bibbia era “il piccolo libretto rosso”.

Il fatto che le Pantere fossero, perlomeno nella rettorica e nei programmi, marxiste, era una delle cause della disputa con la US Organization di Ron Keranga e altri gruppi da loro liquidati in modo derisorio quali nazionalisti culturali. Ovviamente, le pantere non solo avevano la propria agenda nazionalista culturale, ma anche i cosiddetti nazionalisti culturali non erano un insieme monolitico e uniformemente pro-capitalista. Inoltre, le divisioni tra questi gruppi venivano esacerbate dal COINTELPRO. Tuttavia, vi era una differenza fondamentale tra l’ideologia, sempre in evoluzione, del socialismo e della lotta di classe propugnata dalle Pantere e quella dei gruppi nazionalisti neri, compresi quelli schierati a sinistra. Come ebbe a spiegare Bobby Seale in un intervista del marzo 1969,

Stiamo parlando di socialismo. I nazionalisti culturali affermano che il socialismo non farà niente per noi. È una contraddizione tra il vecchio e il nuovo. I neri non hanno tempo di darsi al razzismo nero e le masse nere non odiano i bianchi solo in ragione del colore della loro pelle… Noi non abbiamo intenzione di comportarci da idioti e sostenere che non vi è alcuna possibilità di allineamento con alcuni sinceri rivoluzionari bianchi, o con altre settori poveri e oppressi di questo paese ben disposti a vedere nel sistema capitalistico ciò di cui ci si deve sbarazzare (52).

Come le Pantere siano arrivate a tale posizione e le divisioni da essa suscitate nel partito è una lunga e complicata storia che non possiamo affrontare qui. Ai fini di questo articolo, faremo invece alcune brevi osservazioni riguardo all’adozione del pensiero di Mao Zedong da parte del partito, nonché sulla sua posizione circa l’autodeterminazione dei neri. Per Huey Newton, il cui contributo all’ideologia del partito è stato pari solo a quello di Eldridge Cleaver e Gorge Jackson, le fonti del marxismo del Black Panther erano le rivoluzioni Cinese e Cubana, proprio perché la loro analisi si sviluppava a partire dalle rispettive storie e non dalle pagine del Capitale. L’esempio cinese e cubano, secondo Newton, forniva alle Pantere gli strumenti per sviluppare il loro programma, e abbandonare ciò che nella teoria di Marx e Lenin aveva poca o nulla applicazione alla realtà dei neri (53). Di fatto, Malcolm X esercitò un’influenza ideologica decisiva sulle Pantere.

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Eldridge Cleaver e Kim Il Sung sulla copertina di The Black Panther

Eldridge Cleaver era un po’ più esplicito sul ruolo del maoismo, e del pensiero del leader comunista nordcoreano Kim Il Sung, nel rimodellare il marxismo-leninismo a beneficio delle lotte di liberazione nazionale del terzo mondo. In un pamphlet del 1968 intitolato On the Ideology of the Black Panther Party (Parte 1), Cleaver metteva in chiaro che le Pantere erano un partito marxista-leninista, aggiungendo però, come né Marx, né Engels, né Lenin o nessuno dei loro seguaci contemporanei offrisse un punto di vista adeguato alla comprensione e alla lotta al razzismo. Il compito consisteva dunque nell’adottare e modificare ciò che era utile respingendo ciò che era inservibile. “Con la fondazione della Repubblica popolare democratica di Corea nel 1948 e della Repubblica popolare cinese nel 1949” scriveva Cleaver,

qualcosa di nuovo è stata introdotta nel marxismo-leninismo, il quale ha cessato di essere un fenomeno esclusivamente limitato all’Europa. I compagni Kim Il Sung e Mao Tze-Tung hanno applicato i principi classici del marxismo-leninismo alle condizioni specifiche dei loro paesi, trasformando in tal modo questa ideologia in qualcosa di utile per il loro popolo. Ma essi hanno rigettato quella parte dell’analisi che non era di alcun beneficio e che aveva a che fare solo col benessere del’Europa (54).

Agli occhi di Cleaver, la critica più netta alla cecità del marxismo occidentale riguardo alla questione razziale proveniva da Franz Fanon.

Percependosi come parte di un movimento di liberazione nazionale globale, le Pantere comparavano la comunità nera a una colonia col suo fondamentale diritto all’autodeterminazione. Tuttavia, a differenza di altri gruppi maoisti neri o interrazziali, non proposero mai la secessione o la creazione di uno stato separato. Anzi, descrivere i neri come colonizzati  era un modo per sottolineare la natura materiale del razzismo; si trattava più di una metafora che di un concetto analitico. Autodeterminazione significava controllo della comunità sull’ambiente urbano non necessariamente fondazione di una nazione nera (55). In un intervento alla convenzione fondatrice del Peace and Freedom Party del marzo 1968, Cleaver cercava di chiarire il rapporto tra l’unità interrazziale nella rivoluzione americana e la “liberazione nazionale nella colonia nera”. Egli si pronunciava a favore di un approccio duale nel quale, da una parte, radicali neri e bianchi lavorassero insieme al fine di creare una coalizione di organizzazioni rivoluzionarie, oltreché sviluppare quella macchina politica e militare in grado di rovesciare il capitalismo e l’imperialismo. Dall’altra,  faceva appello a un referendum, sotto egida ONU, che permettesse ai neri di determinare se desideravano l’integrazione o la separazione. Un simile referendum, sosteneva Cleaver, avrebbe fatto chiarezza tra i neri sull’autodeterminazione, esattamente come la prima ondata di movimenti di indipendenza africani, la quale si trovò a dover optare tra mantenere uno status di domini, sebbene modificato, e la completa indipendenza (56).

Cleaver apparteneva a un’ala del partito più interessata alla guerriglia che alla costruzione di una nuova società o ala difficile lavoro di organizzazione della base. L’interesse per Mao, Kim Il Sung, Guevara e, del resto, anche Fanon era legato ai loro scritti sulla violenza rivoluzionaria e la guerra di popolo. Molti autoproclamatisi teorici delle Pantere erano talmente concentrati nello sviluppare tattiche per affrontare l’imminente rivoluzione da ignorare una buona parte degli scritti di Mao. Riconoscendo il problema, Newton tentò di spostare il partito dall’enfasi sulla guerriglia  e la violenza a una discussione più profonda e ricca su quale avrebbe dovuto essere la sua visione del futuro. Poco dopo il suo rilascio dalla prigione, nell’agosto del 1970, propose la creazione di un “istituto ideologico”, i cui partecipanti avrebbero dovuto impegnarsi nella lettura e insegnamento di quelli che egli considerava come “classici” – Marx, Mao e Lenin, così come Aristotele, Platone, Rousseau, Kant, Kierkegaard e Nietzsche.  Sfortunatamente l’istituto ideologico non produsse granché; ben pochi membri del partito percepirono l’utilità della teoria astratta o la rilevanza di tali scritti per la rivoluzione. Il fatto che le Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung venissero lette come una sorta di manuale di guerriglia non fu di maggiore aiuto. Anche Fanon veniva letto in maniera selettiva, in particolare, il suo capitolo “Sulla violenza”, figurava tra i prediletti dai militanti. George Jackson contribuì all’enfasi teorica posta dalle Pantere sulla guerra, visto che molti dei suoi scritti, da Soledad Brother (57) a Blood in My Eye (58), si appoggiavano principalmente a Mao per discutere la resistenza armata al fascismo. Gli sforzi finalizzati a una lettura di Marx, Lenin o Mao, che andasse oltre le questioni legate alla ribellione armata non trovarono sempre un pubblico ricettivo tra le Pantere. Sid Lemelle, all’epoca attivista radicale alla California State University di Los Angeles, ricorda di essere stato in contatto con alcune Pantere che si erano unite a un gruppo di studio promosso dalla California Communist League. Le letture, nelle quali era inclusi i Quattro saggi sulla filosofia di Mao e lunghi estratti dalle opere di Lenin, si rivelarono eccessive e finivano in dibatti tempestosi (59).

La parte forse meno letta delle Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung, almeno da parte degli uomini, era il capitolo sulle donne. In un periodo nel quale le metafore per la liberazione nera erano sempre più mascolinizzate, e i maschi neri del movimento non solo ignoravano le lotte per l’emancipazione delle donne ma spesso perpetuavano l’oppressione di genere, anche il più marxista dei movimenti nazionalisti neri sminuiva la “questione femminile”. Il Black Panther Party non faceva certo eccezione. Di fatto, fu durante lo stesso storico incontro di SDS nel 1969, nel corso del quale le Pantere invocarono Marx, Lenin e Mao per espellere il PLP a causa delle sue posizioni sulla questione nazionale, che il ministro dell’informazione delle Pantere, Rufus Walls, pronunciò il suo famigerato discorso circa la necessitò di coinvolgere le donne nel movimento poiché esse possedevano il “pussy power”. Chiaramente un ripresa vernacolare del passo di Mao in cui si affermava “Le donne cinesi costituiscono un enorme riserva di forza lavoro. Questa riserva dev’essere valorizzata nella lotta per l’edificazione di un grande paese socialista” (60). La dichiarazione di Walls si rivelò un difesa profondamente antifemminista della partecipazione delle donne.

Malgrado la storia della Cina riguardo la questione femminile sia alquanto triste, il detto di Mao secondo il quale “le donne portano su di loro la metà del cielo”, così come i suoi scritti sull’eguaglianza e partecipazione delle donne al processo rivoluzionario, diedero all’emancipazione delle donne una certa legittimità rivoluzionaria in seno alla sinistra. Naturalmente, il maoismo non diede vita al movimento: le lotte delle donne nella nuova sinistra giocarono il ruolo più importante nell’orientare i movimenti di sinistra verso un’agenda femminista, o quantomeno nel mettere il femminismo all’ordine del giorno. Ma per le donne nere del Black Panther, sospettose rispetto al “femminismo bianco”, le parole di Mao sull’uguaglianza delle donne aprivano uno spazio nel partito dove poter sviluppare un inizio di agenda femminista. Come annunciato dal nuovo ministro dell’informazione delle Pantere, Elaine Brown, in una conferenza stampa al ritorno dalla Cina nel 1971, “il Black Panther Party riconosce la leadership progressista dei nostri compagni cinesi in ogni settore della rivoluzione. In particolare, adottiamo il corretto riconoscimento, da parte della Cina, dello status proprio delle donne come eguale a quello degli uomini” (61).

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Elaine Brown

Anche al di là della rettorica, donne nere del Black Panther, come Lynn French, Kathleen Cleaver, Erica Huggins, Akus Njere e Assata Shakur (Joanne Chesimard), portarono avanti la tradizione di ritagliare spazi di libertà nelle organizzazioni esistenti a dominante maschile, al fine di sfidare le molteplici forme di sfruttamento alle quali le donne nere della classe lavoratrice erano sottoposte quotidianamente. Attraverso i programmi delle Pantere per le colazioni gratuite e l’educazione, per esempio, le donne nere idearono strategie attraverso le quali, in varia misura, sfidare il capitalismo, il razzismo e il patriarcato. Alcune afroamericane radicali assursero a posizioni di primo piano e a volte, grazie a loro esempio, contribuirono allo sviluppo di una consapevole e militante prospettiva di classe nera e femminista.

Per certi aspetti, il rafforzarsi di una prospettiva femminista nera di sinistra, consolidata da alcuni slogan maoisti sulla questione femminile, contribuì a modellare le future formazioni maoiste nere. Un esempio ovvio e quello del Black Vanguard Party, un altro gruppo maoista della Bay Area attivo nella metà degli anni Settanta; la sua rivista Juche! difendeva una coerente prospettiva femminista. Michelle Gibbs (anche conosciuta come Michelle Russell, il suo cognome da sposata) promuoveva un’ideologia femminista nera come sostenitrice della League of Revolutionary Black Workers e componente del Black Workers Congress. Alevata in una famiglia comunista, il padre Ted Gibbs aveva combattuto nella Guerra civile spagnola ed era cresciuto in una casa nella quale Paul Robeson e l’artista Elizabeth Catlett erano ospiti occasionali, il punto di vista socialista-femminista della Gibbs derivava dalla sua esperienza politica; dagli scritti delle femministe nere; e da un florilegio di pensatori radicali che andava da Malcolm X, Fanon e Amilcar Cabral a Marx, Lenin e Mao (62). Di converso, l’organizzazione femminista radicale Redstockings, prevalentemente bianca, non solo era influenzata dagli scritti di Mao, ma era anche in un certo senso modellata sul movimento del Black Power, in particolare sulle sue strategie separatiste e la sua identificazione col terzo mondo (63).

Ironicamente, l’identificazione del Black Panther Party con la Cina divenne più profonda nel momento in cui lo status del paese asiatico nella sinistra iniziava a declinare a livello mondiale. La volontà di Mao di ricevere il presidente Nixon e il sostegno della Cina ai governi repressivi di Pakistan e Sri Lanka disilluse molti maoisti negli Stati Uniti e altrove. Ciò nondimeno, Newton ed Elaine Brown non solo visitarono la Cina alla vigilia del viaggio di Nixon, ma annunciarono che il loro ingresso nella politica elettorale traeva ispirazione dall’entrata della Cina nelle Nazioni Unite. Newton affermò che l’evoluzione del Black Panther verso una politica riformista ed elettorale non contraddiceva “l’obiettivo della Cina di rovesciare l’imperialismo Americano, né costituiva un’abiura dei principi rivoluzionari. Si è trattato di una tattica della rivoluzione socialista” (64). Ancor più sorprendente, fu il completo abbandono da parte di Newton dell’idea di autodeterminazione nera, da lui spiegata in termini di sviluppo dell’economia mondiale. Nel 1971 egli sostenne, non senza una certa lungimiranza, che la globalizzazione del capitale rendeva obsoleta l’idea della sovranità nazionale, anche fra i paesi socialisti. In tal modo, le richieste di autodeterminazione da parte dei neri divenivano irrilevanti; la sola strategia praticabile consisteva nella rivoluzione globale. “I neri negli Stati Uniti hanno, oggi più che mai, il compito particolare di abbandonare ogni rivendicazione nazionale. Gli Stati Uniti non sono mai stati il nostro paese; e non vi è, realisticamente, alcun territorio che possiamo reclamare. Fra tutti i popoli oppressi nel mondo, noi ci troviamo nella posizione migliore per ispirare la rivoluzione globale” (65).

Per certi aspetti, la posizione assunta da Newton sulla questione nazionale era più prossima a Mao di quella di molte sedicenti organizzazioni maoiste emerse tra l’inizio e la fine degli anni Settanta. Malgrado le sue dichiarazioni in favore dei movimenti di liberazione nazionale e la “teoria delle rivoluzioni democratiche” di Lin Biao, Mao non sosteneva organizzazioni indipendenti su basi nazionaliste. Per lui il nazionalismo nero era equiparabile al particolarismo etnico/razziale. Egli era, dopotutto, un nazionalista cinese che tentava di unificare contadini e proletari eliminando le divisioni etniche nel suo stesso paese. È utile ricordare la sua dichiarazione del 1957, nella quale domandava che la Cina progressista “aiuti a unire i popoli delle nostre diverse nazionalità… non a dividerli” (66). Allo stesso modo, pur riconoscendo come il razzismo fosse un prodotto del colonialismo e dell’imperialismo, la sua dichiarazione del 1968 insisteva sull’idea che “la contraddizione tra le masse nere degli Stati Uniti e i circoli americani al potere è una contraddizione di classe… le masse nere e quelle dei lavoratori bianchi negli Stati uniti condividono gli stessi interessi e hanno un obiettivo comune per cui lottare” (67). In altre parole, la lotta dei neri era destinata a fondersi col movimento della classe lavoratrice e abbattere il capitalismo.

La nazione nera

Riguardo alla questione della liberazione dei neri, tuttavia, molte organizzazioni maoiste statunitensi, fondate tra l’inizio e la fine degli anni Settanta, traevano ispirazione da Stalin più che da Mao. I neri negli Stati Uniti non erano semplicemente proletari di colore bensì una nazione, o come scrisse Stalin, “una comunità stabile, storicamente formatasi, che ha la sua origine nella comunità di lingua, di territorio, di vita economica e di conformazione psichica che si manifesta nella comune cultura” (68). I gruppi anti-revisionisti che abbracciarono la definizione di nazione fornita da Stalin, come il Communist Labour Party (CLP) e la October League, ripresero anche la vecchia posizione del Partito comunista secondo la quale gli afroamericani residenti nelle contee della black belt nel sud costituivano una nazione e avevano diritto di secessione. D’altra parte, gruppi come Progressive Labour – a suo tempo sostenitore del “nazionalismo rivoluzionario” – si mossero verso una posizione che ripudiava qualsiasi forma di nazionalismo a seguito della Rivoluzione culturale.

Il CLP, tra i movimenti anti-revisionisti, era probabilmente il più coerente sostenitore dell’autodeterminazione dei neri. Fondato nel 1968 prevalentemente da afroamericani e latinos, le origini del CLP vanno cercate nel vecchio Provisional Organizing Committee (POC) – esso stesso un prodotto della scissione del 1956 nel CPUSA che portò alla formazione di Hammer and Steel e del Progressive Labour Movement. Devastato da  un decennio di divisioni interne, il POC era diventato un’organizzazione principalmente nera e portoricana divisa tra New York e Los Angeles. Nel 1968 i vertici di New York espulsero i loro compagni di Los Angeles a causa, tra le altre cose, del rifiuto da parte di quest’ultimi di condannare Stalin e Mao. A sua volta , il gruppo di Los Angeles, in gran parte sotto l’influenza del veterano marxista nero Nelson Peery, fondò nello stesso anno la California Communist League iniziando a reclutare giovani lavoratori e intellettuali radicali neri e ispanici. La casa di Peery a Los Angeles ben presto divenne una sorta di ritrovo per giovani radicali neri dopo la rivolta di Watts; egli organizzava gruppi di studio informali di storia, economia politica e dei classici del pensiero marxista-leninista-maoista accogliendo ogni sorta di attivisti, dal Black Panther attivisti studenteschi della California State University e del L.A. Community College. La California Communist League successivamente si fuse con un gruppo di militanti di SDS definitosi  Marxist-Leninist Workers Association dando vita alla Communist League nel 1970. Due anni dopo il gruppo cambio di nuovo nome in Communist Labour Party (69).

nncqAd eccezione forse del lungo saggio di Harry Haywood “Towards a Revolutionary Position on the Negro Question” (diffuso inizialmente nel 1957 e ancora in circolazione negli anni Sessanta e Settanta) (70), il pamphlet di Nelson Peery The Negro National Colonial Question (1972), fu probabilmente la difesa dell’autodeterminazione nera più letta nei circoli marxisti-leninisti-maoisti dell’epoca. Peery venne aspramente criticato per la sua difesa del termine “negro”, una posizione difficile da sostenere nel bel mezzo del movimento del Black Power. Ma Peery aveva un buon argomento: l’identità nazionale non era questione di colore. A suo modo di vedere la nazione negra era una comunità evolutasi storicamente e stabile con la sua propria cultura, lingua (o meglio, dialetto) e territorio – gli stati della black belt e le aree circostanti, essenzialmente i tredici stati della vecchia Confederazione. Poiché i bianchi del sud condividevano con gli afroamericani un territorio comune, e a detta di Peery, una lingua e cultura comuni, anch’essi erano considerati parte della “Nazione negra”. Più precisamente, i bianchi del sud costituivano la “minoranza anglo-americana” in seno alla Nazione negra. Come evidenziato dalla musica soul, dagli spiritual e dal rock-and-roll, ciò che era emerso nel sud, insisteva peery, era una robusta cultura ibrida con forti radici africane evidenti nei racconti popolari sulla schiavitù, e nei copricapo delle donne. Peery citava Jimi hendrix e Sly and the Family Stone, così come le imitazioni bianche Al Jolson, Elvis Presley e Tom Jones come esempi di cultura condivisa. Egli vedeva la cultura del “soul” anche “nel costume di mangiare piedi di maiale, ossi di collo, certi tipi di legumi, determinate verdure, tutti associati con le aree del sud, in particolare la Nazione negra” (71).

L’inclusione dei bianchi del sud da parte di Peery come parte della Nazione negra era un colpo di genio, in particolare se si tiene conto del fatto che una delle sue intenzioni era destabilizzare le categorie razziali. Tuttavia, il suo fare affidamento sul concetto di nazione elaborato da Stalin indeboliva il suo argomento. nel momento stesso in cui l’emigrazione di massa e l’urbanizzazione svuotava il sud rurale della sua popolazione nera, Peery insisteva nell’affermare che la black belt costituiva la vera patria dei neri. Egli tentò persino di provare che nella black belt esisteva ancora un contadinato nero e un proletariato rurale stabile. Dato che la questione della terra era la base sulla quale era costruita la sua comprensione della questione dell’autodeterminazione, egli finiva per dire ben poco a proposito della nazionalizzazione dell’industria e della produzione socializzata. Così, nel 1972, poteva scrivere “la questione nazionale e coloniale negra può trovare soluzione solo con la restituzione della terra a coloro che l’hanno lavorata per secoli. Nella Nazione negra, una simile redistribuzione richiederà una combinazione di aziende agricole di stato e cooperative così da rispondere al meglio alle necessità del popolo, il tutto nel contesto di un’agricoltura moderna e meccanizzata” (72).

Il Partito comunista (marxista-leninista) (CP [ML]) promuoveva anch’esso una versione della tesi della black belt, che ereditava da una delle sue prime incarnazioni come October League. Il CP (ML), nacque dalla fusione di October League, con base prevalentemente a Los Angeles, e Georgia Communist League, avvenuta nel 1972 (73). Molti dei suoi membri fondatori provenivano dal Revolutionary Youth Movement (una fazione del SDS), vi era poi una mancata di esponenti della vecchia sinistra come Harry Haywood e Otis Hyde. La presenza di Haywood nelle fila del CP (ML) era assi significativa, essendo considerato uno degli artefici della tesi della black belt originale formulata durante il sesto congresso dell’Internazionale comunista nel 1928. Secondo la definizione aggiornata datane dal CP (ML) gli afroamericani avevano il diritto di secessione “dalla loro patria storica nella black belt del sud” (74). Ma il documento aggiungeva che il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione non significava che il gruppo ritenesse la separazione la soluzione più adeguata. Introduceva, inoltre, l’idea dell’autonoma regionale (ossia che le concentrazioni urbane di afroamericani potevano anch’esse esercitare l’autodeterminazione nelle proprie comunità), estendendo lo slogan dell’autodeterminazione ai chicanos, agli americani di origini asiatiche, ai nativi americani e ai popoli indigeni delle colonie statunitensi (Isole del Pacifico, Hawaii, Alaska ecc.). L’organizzazione selezionava quali movimenti nazionalisti supportare, garantendo il proprio appoggio solo al nazionalismo rivoluzionario e non a quello reazionario.

La Revolutionary Union, emanazione della Bay Area Revolutionary Union (BARU) fondata nel 1969 col sostegno di ex membri del CPUSA che avevano visitato la Cina, assunse la posizione secondo la quale i neri costituivano “una nazione oppressa di tipo nuovo” (75). Poiché i neri erano sopratutto lavoratori concentrati nelle aree urbane e industriali (quella che il BARU chiamava “struttura di classe deformata”), il gruppo era convinto che l’autodeterminazione no dovesse prendere la forma della secessione. Invece, essa avrebbe dovuto essere combattuta attraverso la lotta alla discriminazione, lo sfruttamento e la repressione poliziesca nei centri urbani. Nel 1975, quando la Revolutionary Union  si trasformò in Revolutionary Communist Party (RCP), abbracciava ancora l’idea che i neri costituissero un nuovo tipo di nazione iniziando, tuttavia, a sostenere “il diritto dei neri a ritornare alla loro patria” (76). Non sorprende che queste due linee contraddittorie creassero confusione, costringendo i leader del RCP ad adottare l’insostenibile posizione di difendere il diritto all’autodeterminazione senza però promuoverlo. Due anni dopo essi abbandonarono completamente il diritto all’autodeterminazione e, come il PLP, dichiararono guerra a ogni forma di nazionalismo.

Diversamente da molte organizzazioni maoiste già menzionate, la Revolutionary Communist League (RCL) – fondata e guidata da Amiri Baraka – crebbe direttamente dai movimenti nazionalisti-culturali della fine degli anni Sessanta. Pe rcomprendere le mutevoli posizioni della RCL (e dei suoi precursori) riguardo alla liberazione dei neri, e necessario ritornare al 1966, quando Baraka fondo la Spirit House a Newark, New Jersey, con l’aiuto di attivisti locali e altri che avevano lavorato con lui al Black Arts Repertory Theater di Harlem. Sebbene gli artisti della Spirit House fossero coinvolti nelle organizzazioni politiche locali sin dal’inizio, la violenza poliziesca di cui furono vittime Baraka e altri attivisti durante la rivolta di Newark nel 1967 li politicizzò ulteriormente. Essi, dopo la rivolta, aiutarono a organizzare una conferenza del Black Power a Newark  che attirò numerosi leader nazionalisti neri, tra i quali Stokley Carmichael, H. Rap Brown, Huey P. Newton del Black Panther Party, e Imari Obadele della recentemente fondata Republic of New Africa (in parte emanazione del RAM). Poco dopo, la Spirit House divenne la base del Committee for a Unified Newark (CFUN), una nuova organizzazione composta da United Brothers, Black Community Defense and Development e Sisters of Black Culture. Oltre ad attrarre i nazionalisti neri, mussulmani e anche alcuni marxisti-leninisti-maoisti, il CFUN portava il marchio della US Organization di Ron Keranga. Il CFUN adottò la versione del nazionalismo culturale di Keranga lavorando con lui a stretto contatto. Per quanto vi fossero tensioni crescenti tra Keranga e alcuni attivisti di Newark riguardo al suo atteggiamento verso le donne, nonché sull’organizzazione centralistica del CFUN importata dalla US Organization, il movimentò continuò a svilupparsi. Nel 1970, Baraka rinominò il CFUN come Congress of African Peoples (CAP), trasformandolo in organizzazione nazionale e rompendo con Keranga al suo congresso di fondazione. i vertici del CAP criticarono duramente il nazionalismo culturale di Keranga, facendo passare una rivoluzione che rifletteva una svolta a sinistra – compresa una proposta per raccogliere fondi per aiutare la costruzione della ferrovia Tanzania-Zambia (77).

10 May 15:47

Ripartire da Marx a Torino!

by mds


Dopo il ciclo di letture dell'anno scorso sul Capitale di Marx a cura di Riccardo Bellofiore, la campagna Noi Restiamo e la Rete dei Comunisti intendono proporre a Torino un nuovo ciclo di incontri di formazione sulla teoria marxiana da parte di un altro studioso dell'autore tedesco molto apprezzato a livello internazionale: Roberto Fineschi.
Fineschi ha preparato un programma di sei incontri che si terranno a Torino nei prossimi mesi, e che spaziano dalla teoria del processo storico di Marx all'analisi di alcuni concetti chiave sviluppati nel Capitale, dal rapporto con Hegel al dibattito attuale sulla nuova edizione delle opere complete di Marx ed Engels, la Mega2.

La partecipazione agli incontri è libera e gratuita. Gli incontri saranno ospitati dalla libreria Comunardi. Per finanziare la campagna abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding descritta a questo link: https://www.produzionidalbasso.com/project/ciclo-di-incontri-su-marx-a-cura-di-roberto-fineschi/?after_update=True

Di seguito il programma degli incontri che si svolgeranno presso la Libreria Comunardi, Via Bogino 2, Torino

I incontro. Giovedì 3 marzo, h. 21
Marx, la Mega ed il Marxismo. Utili distinzioni
Letture consigliate:
- Mega2: Marx ritrovato, a cura di A. Mazzone, Roma, Mediaprint, 2013.
- Roberto Fineschi, Un nuovo Marx, Roma, Carocci, 2008.
- Karl Marx 2013. Numero speciale de “Il ponte”.

II incontro. Venerdì 4 marzo, h. 18
Presente, passato, futuro. Per una teoria del processo storico
Letture consigliate:
- Karl Marx, Il manifesto del Partito Comunista.
- Karl Marx, Prefazione a Per la critica dell'economia politica.
- Karl Marx, Il capitale, Libro I, Capitolo V.

III incontro. Giovedì 21 aprile, h. 21
Marx “economista”. Prima parte. Merce-Denaro o Valore-Lavoro?
Letture consigliate:
- Karl Marx, Il capitale, Libro I, Capitoli 1-3.
- Roberto Fineschi, I quattro livelli di astrazione del concetto marxiano di capitale, in Marx in questione. Disponibile su http://marxdialecticalstudies.blogspot.it/2011/04/roberto-fineschi-i-quattro-livelli-di.html.

IV incontro. Venerdì 22 aprile, h. 18
Marx “economista”. Seconda parte. La vexata quaestio: trasformazione del valore in prezzi e i problemi del terzo libro
Letture consigliate:
- Karl Marx, Il capitale, Libro terzo, Capitoli 9 e 10.
10 May 15:47

Exit!

by Lupezio






Anselm Jappe 



















Robert Kurz





Roswitha Scholz