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22 Dec 08:56

Tensioni crescenti nel Mar Cinese Meridionale: le Filippine tra Stati Uniti e Cina

by https://www.lantidiplomatico.it

 

di Paolo Arigotti

 

Tra il 9 e il 10 dicembre si sono verificati una serie di incidenti tra Repubblica Popolare Cinese e le Isole Filippine nelle acque del Mar Cinese Meridionale, nei pressi della Secca di Scarborough e dell’atollo di Ayungin: stando alla denuncia delle autorità filippine, la guardia costiera cinese avrebbe attaccato un convoglio di imbarcazioni di rifornimento civile nelle isole Spratly, presso la Second Thomas Shoal. Un episodio simile si era verificato ai primi di dicembre, quando il Comando meridionale dell'Esercito Popolare di Liberazione (PLA) cinese aveva fatto sapere che la nave da combattimento a stelle e strisce Gabrielle Giffords si era intrufolata illegalmente nelle acque adiacenti a Ren'ai Jiao (sempre isole Spratly)[1].

Parliamo di un arcipelago composto da circa un centinaio di isole o atolli, le Spratly per l’appunto, al centro di dispute internazionali che coinvolgono Vietnam (che occupa il maggior numero delle isole), Filippine (che ne posseggono la superficie più estesa), Cina, Malaysia, Taiwan e Brunei.

Giova precisare che gli episodi citati sono tutt’altro che isolati, indice di un clima di tensione – con reciproci scambi di accuse circa l’accaduto – sintomatico di un qualcosa che va ben al di là del fatto singolo, e gravido di conseguenze. In effetti, gli episodi che abbiamo descritto solo soltanto alcuni di quelli occorsi nell’ultimo anno, durante il quale le due nazioni asiatiche sono state coinvolte in vari screzi, con reciproche accuse di incidenti e speronamenti.

Pechino ha voluto più volte ribadire la propria intenzione di rigettare con forza ogni tentativo da parte di Washington, e/o dei suoi alleati, di insinuarsi in un contesto peninsulare e insulare che va dal Borneo, e, passando per Taiwan, arriva al Giappone meridionale, con l’obiettivo ultimo di impedire qualunque stanziamento militare nelle vicinanze della “provincia ribelle”; Taiwan – giova ricordarlo – viene riconosciuto come stato sovrano solo da uno sparuto gruppo di nazioni, mentre la stragrande maggioranza del pianeta intrattiene relazioni diplomatiche esclusivamente con la Repubblica Popolare.

E i problemi con Manila si inseriscono in tale contesto, con tensioni preesistenti rinfocolate dalla decisione filippina di aprire una nuova base della guardia costiera sull’isola di Thitu, la seconda più grande isola naturale delle Spratly[2].

Parliamo di una delle zone più contese del mondo, per via delle risorse petrolifere, della posizione strategica per i flussi commerciali e della enorme potenzialità per la costruzione di insediamenti militari. Basterà ricordare che secondo l’EIA (Energy Information Administration), l’agenzia statistica e analitica del Dipartimento dell'energia degli USA, il Mar Cinese Meridionale ospiterebbe giacimenti di idrocarburi, stimati in 11 miliardi di barili di petrolio e 190 trilioni di gas naturale.

Pechino non soltanto ha sempre respinto e rinviato al mittente le accuse di Manila[3] [4], ma ha voluto ribadire la legittimità delle sue rivendicazioni territoriali, inviando un chiaro messaggio ai due maggiori alleati dei filippini – USA e Canada – invitandoli a non immischiarsi in certi affari solo per salvaguardare i propri interessi geopolitici, accusando oltretutto Washington di voler istigare le Filippine contro la Cina[5].

Non le ha mandate a dire il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, il quale, in occasione di una recente conferenza stampa, ha detto che "le Filippine, sostenute dal sostegno esterno, hanno ignorato la buona volontà e la moderazione della Cina e hanno ripetutamente sfidato la Cina. Principi e linea rossa. Questo è il rischio principale che potrebbe far aumentare le tensioni in mare", mentre Pechino, per conto suo, ha confermato la volontà di ricerca di una soluzione negoziale – un protocollo d’intesa era stato siglato nel 2018 – che garantisca lo sfruttamento congiunto delle risorse. The Global times, quotidiano in lingua inglese considerato voce ufficiale del partito comunista cinese, ha rincarato la dose scrivendo che “le attuali scelte politiche delle Filippine danneggiano non solo l'economia filippina. suoi interessi vitali, ma anche il suo spazio di cooperazione con la Cina, oltre a danneggiare le aspirazioni comuni alla pace, alla stabilità e alla prosperità nel contesto regionale”[6].

Se fosse possibile, ci va ancora più pesante Brian Berletic, ricercatore e analista geopolitico americano, secondo il quale “gli Stati Uniti stanno utilizzando le controversie marittime comuni come pretesto per inserirsi militarmente nella regione, tentando di trasformare le controversie ordinarie in una crisi regionale o addirittura globale. In realtà, gli Stati Uniti stanno rafforzando la propria presenza militare, non per difendere i loro presunti alleati, ma per circondare e contenere la Cina, trasformando le nazioni ospitanti in arieti contro la Cina. Questa strategia statunitense ha avuto successi variabili nel sud-est asiatico, di cui le Filippine sono state di gran lunga il successo più grande. Ciò è dovuto alla storia unica e sfortunata delle Filippine come colonia statunitense dal 1898 al 1946 e alla sua subordinazione di fatto agli Stati Uniti da allora.”[7]

Le tensioni storiche nascono con le rivendicazioni del dragone sulla cosiddetta linea dei nove trattini, disegnata dai cinesi all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, circa la quale Pechino rivendica una piena sovranità, inclusi i diritti di pesca e sfruttamento delle risorse. Anche le Filippine hanno rivendicato analoghi diritti, appellandosi nel 2013 al Tribunale internazionale dell’Aja, il quale nel 2016 riconobbe – ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare - gli atolli di Ayungin e Panganiban come zone economiche esclusive di Manila, senza però esprimersi sull’altra area contesa, la secca di Scarborough, decisione che Pechino non ha mai accettato. Nel 2014 la Cina aveva già occupato l’atollo di Panganiban, trasformandolo in una base militare. La decisione del 2018 di porre la Guardia Costiera cinese alle dirette dipendenze di una forza paramilitare supervisionata dalla Commissione Militare Centrale, il vero nucleo del potere nel gigante asiatico, e l’autorizzazione, data nel 2021, per l’utilizzo condizionato delle armi contro navi straniere che si trovino in acque considerate sotto la giurisdizione cinese, la dicono lunga sulla determinazione del dragone.

In passato non sono mancati tentativi di trovare un’intesa. Nel 2019 il presidente filippino Rodrigo Duterte, considerato all’epoca filocinese per la sua politica di riavvicinamento al gigante asiatico[8], dichiarò che Xi Jinping[9] gli avesse garantito il 60 per cento dei proventi derivanti dallo sfruttamento delle acque contese, se lui avesse rinunciato alla decisione dell’Aja del 2016. La questione non ebbe seguito, e gli scontri non cessarono mai del tutto, con una nuova escalation a partire dal 2020, quando maturò la svolta di Duterte, che decise di rivedere il suo atteggiamento verso Pechino.

La nuova politica maturata nell’ultima parte del mandato di Duterte è stata rinverdita con l’avvento alla presidenza di Ferdinando Marcos Jr. (giugno 2022), che ha voluto un nuovo e più deciso riavvicinamento agli Stati Uniti.

In realtà non c’era mai stato un vero e proprio distacco. Al contrario, le due nazioni sono da sempre amiche e alleate: il padre dell’attuale capo dello stato, il dittatore Ferdinando Marcos, aveva governato col pugno di ferro le Filippine per circa un ventennio, proprio grazie all’appoggio di Washington. Tra Stati Uniti e Filippine era già in vigore un accordo di cooperazione militare, chiamato Enhanced Defence Cooperation Agreement, siglato nel 2014, che regolava, tra le altre cose, le basi militari americane nell’arcipelago, e a maggio scorso è stato firmato un nuovo trattato di difesa e mutuo soccorso militare[10], preceduto nel mese di aprile da esercitazioni militari congiunte[11]; a ottobre Joe Biden ha ribadito l’impegno americano in caso di aggressione contro Manila[12].

E non finisce qui, visto che già si parla di nuovi accordi, sempre in funzione anticinese, tra Giappone e Filippine[13], mentre fonti dell’Associated press parlano di un progetto per espandere il pattugliamento congiunto, con Stati Uniti e Australia, finalizzato a contrastare la “minaccia” cinese nelle rotte marittime strategiche dell’area[14], e circolano voci di un’apertura (non immediata) dell’Aukus, l’alleanza militare tra Usa, Regno Unito e Australia, pure a Giappone e Corea del Sud (ma non si parla di Filippine), per dare vita a una sorta di Nato asiatica.

Nonostante gli attriti, attuali e potenziali, Manila e Pechino seguitano a intessere importanti relazioni commerciali: la Cina è stata finora il maggior partner commerciale per le Filippine, con investimenti di grande importanza, e i cinesi sono la seconda fonte di turismo per l’arcipelago.

La rilevanza strategica delle Filippine, per via della sua vicinanza alla Cina - circa tremila chilometri in linea d’aria le separano dalla Repubblica Popolare, meno di 200 la distanza da Taiwan[15] - non ha bisogno di grandi spiegazioni: in un clima di crescenti tensioni, che vedono in Pechino il maggior rivale politico ed economico della potenza egemone, nonché l’unica in grado di contendergli la leadership strategica, poter contare su un alleato del genere è vitale per Washington.

A questo punto si può facilmente comprendere come le “scaramucce” dei giorni scorsi si inseriscano in un contesto assai più complesso e articolato. Il fatto poi che le Filippine siano alleate non solo degli americani, ma anche dei canadesi[16] – i quali ultimamente hanno avuto diversi problemi con Pechino[17] – rischia di estenderne la portata, e in vista dell’appuntamento elettorale statunitense del 2024, la scacchiera dell’Indo pacifico e la crescente rivalità con la Cina, contribuiranno a fare delle Filippine uno dei tasselli più importanti del complesso mosaico.

Nella regione dove si sta giocando, e si giocherà, la vera partita dei nuovi equilibri internazionali, gli Stati Uniti stanno cercando di “cingere d’assedio” la Cina, costruendo e/o facendo leva su una nuova rete di alleanze, con tutte quelle nazioni che possono servire per contenerne l’espansionismo, vero o presunto.

Guardando a questi paesi, ci torna alla mente una delle più conosciute frasi di Henry Kissinger: “Essere un nemico degli Stati Uniti è pericoloso, ma essere un amico è fatale". E l’esperienza, comprese quelle più recenti, insegna che qualunque cosa si pensi del politico e diplomatico recentemente scomparso, almeno su questo punto aveva perfettamente ragione!

 

 

FONTI

www.lindipendente.online/2023/12/18/usa-e-canada-accusano-pechino-risponde-la-contesa-tra-cina-e-filippine-infiamma-il-pacifico/

www.china-files.com/alta-tensione-tra-cina-e-filippine-sul-mar-cinese-meridionale/

it.insideover.com/difesa/una-base-sullisola-contesa-la-mossa-che-fa-infuriare-la-cina.html

www.aljazeera.com/news/2023/12/10/philippines-and-china-accuse-each-other-of-south-china-sea-collisions

www.aljazeera.com/news/2023/12/9/philippines-condemns-chinese-actions-in-south-china-sea

www.lantidiplomatico.it/dettnews-global_times__la_provocazione_dellesercito_usa__come_unoperazione_ad_alta_quota_senza_una_corda_di_sicurezza/39602_51918/

italian.cri.cn/2023/12/18/ARTIeNrM9ONM41sVWXkNgdeR231218.shtml

www.lantidiplomatico.it/dettnews-mar_cinese_meridionale_lalleato_chiave_di_washington_fa_aumentare_la_tensione_con_la_cina_nelle_aree_contese/82_51893/

www.limesonline.com/cartaceo/le-filippine-sulla-linea-del-fronte

scenarieconomici.it/le-filippine-intendono-difendere-con-ogni-mezzo-le-proprie-acque-dalla-cina/

www.atlanteguerre.it/attriti-in-mare-fra-filippine-e-cina/

www.canada.ca/en/global-affairs/news/2023/12/statement-on-actions-taken-by-peoples-republic-of-china-against-philippines-vessels-in-south-china-sea0.html

ca.china-embassy.gov.cn/eng/sgxw/202312/t20231216_11203715.htm

www.reuters.com/article/philippines-china-southchinasea/philippines-duterte-says-xi-offering-gas-deal-if-arbitration-case-ignored-idUSL3N2620B1/

www.startmag.it/mondo/canada-interferenze-cina/

www.asianews.it/notizie-it/Manila-e-Tokyo-rafforzano-la-difesa-marittima-comune-contro-Pechino-59777.html

www.limesonline.com/filippine-duterte-bluff-diversificazione-cina-usa/94966

www.defense.gov/News/Releases/Release/Article/3383607/fact-sheet-us-philippines-bilateral-defense-guidelines/

www.money.it/la-rivalita-tra-usa-e-cina-colpisce-le-filippine-tutti-i-dilemmi-economici-di-manila

www.asianews.it/notizie-it/Manila-e-Tokyo-rafforzano-la-difesa-marittima-comune-contro-Pechino-59777.html

www.ansa.it/sito/photogallery/primopiano/2023/04/11/filippine-al-via-esercitazioni-militari-congiunte-con-usa_7242c03e-5aac-4c63-bcfe-c426cd328b31.html

it.insideover.com/politica/la-rete-per-contenere-la-cina-nel-mar-cinese-meridionale.html

www.globaltimes.cn/page/202312/1303868.shtml

www.asia-pacificresearch.com/us-shapes-philippines-southeast-asia-ukraine/5631846

www.analisidifesa.it/2022/11/nuove-basi-americane-nelle-filippine-in-equilibrio-tra-usa-e-cina/

 

 

 

 

 

 

[1] www.lantidiplomatico.it/dettnews-global_times__la_provocazione_dellesercito_usa__come_unoperazione_ad_alta_quota_senza_una_corda_di_sicurezza/39602_51918/

[2] it.insideover.com/difesa/una-base-sullisola-contesa-la-mossa-che-fa-infuriare-la-cina.html

[3] italian.cri.cn/2023/12/18/ARTIeNrM9ONM41sVWXkNgdeR231218.shtml

[4] ca.china-embassy.gov.cn/eng/sgxw/202312/t20231216_11203715.htm

[5] www.lantidiplomatico.it/dettnews-mar_cinese_meridionale_lalleato_chiave_di_washington_fa_aumentare_la_tensione_con_la_cina_nelle_aree_contese/82_51893/

[6] www.globaltimes.cn/page/202312/1303868.shtml

[7] www.asia-pacificresearch.com/us-shapes-philippines-southeast-asia-ukraine/5631846

[8] www.limesonline.com/filippine-duterte-bluff-diversificazione-cina-usa/94966

[9] www.reuters.com/article/philippines-china-southchinasea/philippines-duterte-says-xi-offering-gas-deal-if-arbitration-case-ignored-idUSL3N2620B1/

[10] www.analisidifesa.it/2022/11/nuove-basi-americane-nelle-filippine-in-equilibrio-tra-usa-e-cina/

[11] www.ansa.it/sito/photogallery/primopiano/2023/04/11/filippine-al-via-esercitazioni-militari-congiunte-con-usa_7242c03e-5aac-4c63-bcfe-c426cd328b31.html

[12] kosovapress.com/it/biden-thote-se-shba-do-te-mbroje-filipinet-nese-kina-sulmon/

[13] www.asianews.it/notizie-it/Manila-e-Tokyo-rafforzano-la-difesa-marittima-comune-contro-Pechino-59777.html

[14] it.insideover.com/difesa/una-base-sullisola-contesa-la-mossa-che-fa-infuriare-la-cina.html

[15] www.limesonline.com/cartaceo/le-filippine-sulla-linea-del-fronte

[16] www.canada.ca/en/global-affairs/news/2023/12/statement-on-actions-taken-by-peoples-republic-of-china-against-philippines-vessels-in-south-china-sea0.html

[17] www.startmag.it/mondo/canada-interferenze-cina/

13 Dec 12:35

La dottrina Brzezinski e le (vere) origini della guerra russo-ucraina - Intervista a Salvatore Minolfi

by https://www.lantidiplomatico.it


di Francesco Santoianni

Pubblicato dall’Istituto italiano per gli studi filosofici e presentato in una davvero affollata serata trasformatasi in una appassionata assemblea (con interventi di de Magistris, Santoro, Basile…) il libro di Salvatore Minolfi  “Le origini della guerra russo-ucraina”. Un libro basato anche su documenti diplomatici, quest’anno resi pubblici da Wikileaks e che attestano come la guerra, lungi dal nascere da “mire imperiali di Putin” (come sbandierato dai media mainstream e da qualche “anima bella” della “sinistra”) è la inevitabile conseguenza, in primis, di un accerchiamento della Russia, mirante ad impossessarsi delle sue risorse, e, poi, dall’esigenza di sottomettere una Unione europea “colpevole” di commerciare con partner ostili agli USA.

Di questo e di altro abbiamo parlato con l’autore del libro.

 

Poco prima di quel fatidico 24 febbraio 2022, davanti al protrarsi (avrebbe dovuto concludersi il 20 febbraio) dell’esercitazione militare congiunta Russia-Bielorussia ai confini con l’Ucraina, da una parte la CIA e alcuni organi di stampa davano come imminente una invasione russa, dall’altra il governo di Kiev e parte del governo USA smentivano questa ipotesi. Perché questa strana situazione?

 

<<Sulle circostanze in cui prende forma l’invasione russa dell’Ucraina circolano le più diverse e contraddittorie ricostruzioni. Ad esse si aggiungono sempre nuove rivelazioni sulla presenza e sulla consistenza di gruppi militari stranieri in Ucraina sin dall’inizio della guerra o addirittura prima. La verità è che, allo stato delle attuali conoscenze, mancano gli elementi per ricostruire in modo documentato ed attendibile il contesto in cui il conflitto esplode ufficialmente. Inoltre, nessuno dei protagonisti in gioco può essere caratterizzato in modo chiaro ed inequivocabile, poiché differenze di percezione e di approccio hanno attraversato i diversi soggetti coinvolti: pensiamo, in particolar modo, al presidente Zelensky che tra il maggio 2019 (anno della sua elezione) e il febbraio 2022 capovolge completamente le proprie posizioni e il proprio orientamento sulla questione dei rapporti con la Russia ed il futuro della regione del Donbass.

Ciò nondimeno, è abbastanza chiaro che il percorso verso la guerra inizia nel febbraio del 2021 (dunque, un anno prima), con l’arresto dei rappresentanti dell’opposizione a Kyiv, la chiusura dei canali televisivi anti- governativi e un generale restringimento dei margini di agibilità politica in Ucraina. Nel frattempo, la neo-eletta Amministrazione Biden non fa mistero della propria volontà di dare un rilievo centrale al proprio orientamento anti-russo: in un modo irrituale e senza precedenti nella storia diplomatica, Biden, nel corso di un’intervista, definisce Putin “un killer”. Non era mai successo, neanche nelle fasi più acute della guerra fredda. Pochi giorni dopo, sempre nel marzo del 2021, cinque mesi prima del caotico ritiro dall’Afghanistan, il presidente americano insedia ai vertici della CIA William Burns, un ex-diplomatico di carriera, ex- ambasciatore in Russia e profondo conoscitore della lingua e della politica russa: una scelta piuttosto curiosa per una superpotenza che ha deciso di svincolarsi dal ventennale impegno nella “Global War on Terror” in Medio Oriente, per concentrarsi sulla priorità strategica assegnata al confronto con la Cina nel Pacifico occidentale.

È in relazione a questi segnali inequivocabili che si dispiega l’iniziativa di “diplomazia coercitiva” da parte della Russia, con l’avvio delle esercitazioni militari e l’ammassamento delle truppe ai confini dell’Ucraina. Decisione che non porta a nulla: Mosca colleziona una lunga serie di rifiuti e di ostentata indisponibilità al dialogo e al negoziato. Dinanzi alla proposta di trattato, Antony Blinken risponde pubblicamente e seccamente: “There is no change, there will be no change”. È come sbattere la porta in faccia a Putin.

 Infine, è proprio in questo contesto che tra il 18 e il 20 febbraio 2022 – cioè pochi giorni prima dell’avvio della cosiddetta “Operazione Militare Speciale”, le violazioni della tregua sulla linea di confine che delimita il territorio dei separatisti passano da circa 60 a circa 2000 episodi al giorno.

Al riguardo, i rapporti della “Special Monitoring Mission to Ukraine” dell’OSCE sono chiari ed inequivocabili: le iniziative di violazione della tregua partono dal versante ucraino della linea di confine. Non sappiamo se Zelensky ne fosse o meno a conoscenza: ma i suoi comandanti sul campo stavano avviando l’escalation.>>

 

 

Da quando l’Ucraina era stata scelta dagli USA come testa di ariete contro la Russia?

 

<<L’idea di includere l’Ucraina nel progetto di allargamento della NATO affiora a più riprese nella seconda metà degli anni Novanta, ma non viene mai esplicitamente dichiarata. Nel più importante e documentato studio sull’argomento (il libro di Mary Elise Sarotte “Not One Inch”) si afferma che, in quel periodo, la sola idea di dare le garanzie dell’articolo 5 alla più grande ex-repubblica sovietica faceva impallidire anche i più convinti assertori della politica di allargamento. Di conseguenza, per l’intero decennio, non se ne fa nulla (ad eccezione della “Charter on a Distinctive Partnership between NATO and Ukraine” del 1997).

È tra il 2003 e il 2004 che accadono due cose importanti. La prima è che l’Ucraina decide di associarsi alla cosiddetta “Nuova Europa”, quel gruppo di paesi dell’Europa centro-orientale che prendono parte all’invasione americana dell’Irak attraverso la cosiddetta “Coalition of the willing”, proprio mentre Francia e Germania manifestano pubblicamente la loro opposizione, determinando una frattura politica senza precedenti nella storia dell’Alleanza Atlantica.   

L’anno successivo, nel mentre si verifica una nuova tornata nell’allargamento della NATO (con l’ingresso di altri quattro paesi dell’ex Patto di Varsavia e delle tre ex-repubbliche sovietiche di Estonia, Lettonia e Lituania) prende avvio la cosiddetta “rivoluzione arancione” in Ucraina, che porta al governo di Kyiv delle forze politiche intenzionate ad abbandonare la neutralità del paese per spingerlo in una relazione organica con l’Occidente (Unione Europea e NATO). Francia e Germania restano fortemente ostili, cosicché, quando nell’aprile del 2008, al Vertice Atlantico di Bucarest, gli Stati Uniti impongono una forzatura e chiedono formalmente il varo di un “Membership Action Plan” per l’Ucraina e per la Georgia, sono proprio quei due paesi della “Vecchia Europa” a porre il veto. Ma la frittata è ormai fatta. La nuova Russia di Putin, messa in allarme, risponde a tono ed alla prima crisi, pochi mesi dopo, usa la forza militare in una breve guerra contro la Georgia.

Mentre la prospettiva atlantica entra in una lunga fase di stallo, è l’Europa a prendere l’iniziativa, elaborando un “Accordo di Associazione” con l’Ucraina, pensato però come alternativa ad un vero e proprio ingresso del paese nell’Unione Europea (per il quale, come nel caso della NATO, non c’è il necessario consenso). Il problema è che – pur non prefigurando la prospettiva della membership – la bozza di Accordo viene escogitata (dal polacco Radek Sikorski e dallo svedese Carl Bildt) in termini giuridicamente così precisi, dettagliati e vincolanti da costituire un ostacolo effettivo ad ogni ulteriore prosecuzione delle normali relazioni economiche e politiche che l’Ucraina intrattiene con la Russia, la quale a sua volta aspira a coinvolgere Kyiv nel suo nascente progetto di Unione Economica Eurasiatica. L’Ucraina – un paese notoriamente composito dal punto di vista demografico, etno-culturale e socio-politico – viene irragionevolmente posta dinanzi a un bivio, ad un aut aut, destinato a generare una prevedibile lacerazione sociale. I negoziati vanno avanti per anni, ma quando, alla scadenza concordata, Yanukovych si rifiuta di firmare, le proteste di piazza innescano un periodo di disordini che dura circa tre mesi e culmina prima in un torbido massacro e poi in un colpo di stato che destituisce il presidente.

 La Russia reagisce annettendosi la Crimea, mentre le spinte secessioniste mobilitano le regioni orientali del paese. Nel giro di poche settimane, l’Ucraina scivola in una guerra civile che i nuovi dirigenti a Kyiv non vogliono neanche riconoscere come tale, preferendo trattare gli insorti come “terroristi”. Tra alti e bassi, la guerra civile dura otto anni e fa migliaia di vittime. È nel corso di questi anni che Washington, per aggirare le riserve e le cautele dei principali partners europei ed atlantici, costruisce una relazione diretta con Kyiv e si impegna in una ristrutturazione radicale delle forze armate ucraine.>>

 

Secondo alcuni commentatori Putin, fino al 17 dicembre 2021 (quando consegnò agli USA e alla NATO la bozza di “Accordo sulle misure per garantire la sicurezza della Federazione Russa e degli Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico) aveva fatto ben poco per difendere gli accordi di Minsk e la conseguente autonomia delle popolazioni del Donbass, quasi aspettasse il momento opportuno per una guerra. Qual è la sua opinione?

 

<<Il fatto che, nel corso di otto anni di guerra civile, Putin non abbia mai riconosciuto ufficialmente l’indipendenza delle autoproclamate repubbliche del Donbass, né tanto meno si sia proposto di annetterle (in una fase in cui l’operazione sarebbe stata relativamente facile), è un elemento che toglie fondamento alla tesi secondo la quale esisteva sin dal principio della crisi un progetto imperialista e annessionista russo. Il problema è che la soluzione prefigurata dagli accordi di Minsk richiedeva il consenso attivo da parte del governo di Kyiv, sul quale ricadeva di fatto l’onere dell’implementazione effettiva degli impegni sottoscritti: una riforma costituzionale che riconoscesse margini di autonomia alla regione del Donbass non la potevano di certo fare a Mosca. Era un compito del governo ucraino. Oggi sappiamo – grazie alle tardive ‘confessioni’ pubbliche di Poroshenko, di Merkel e di Hollande – che gli accordi di Minsk erano stati sottoscritti solo con l’intenzione di prendere tempo e dare all’Ucraina l’opportunità di rafforzarsi militarmente. In breve, l’attività di mediazione degli europei era parallela e complementare a quella svolta dagli Stati Uniti nella ristrutturazione dello strumento militare ucraino.>>

 

Il ruolo della Germania nella contesa Ucraina-Russia ha avuto delle modifiche negli ultimi anni?

 

<<Indipendentemente dagli esiti finali della guerra – che nessuno di noi è in grado di anticipare – possiamo già dire con certezza che la Germania è la grande sconfitta. Il modo in cui si era realizzata la riunificazione tedesca, dopo la fine della guerra fredda, implicava la riconferma della subalternità della Germania alla guida americana e la rinuncia a qualsiasi ruolo autonomo dell’Unione Europea. In questo quadro, l’elaborazione dell’interesse nazionale tedesco ha continuato a svilupparsi unicamente sul piano del primato economico, nella convinzione che il successo industriale e commerciale sarebbe stato sempre percepito come “neutro” sotto il profilo strategico e, dunque, tollerato.

Le cose sono andate diversamente. La costruzione di una potente industria che ha accumulato per vent’anni ingenti surplus commerciali è avvenuta innanzitutto a danno dei partners europei, cui è stata imposta una politica di austerity e di deflazione salariale indispensabile per sostenere i vantaggi comparati di una potenza esportatrice, ma disastrosa per lo sviluppo interno dei paesi dell’Unione. Inoltre, nella costruzione del modello tedesco, la relazione con Mosca diventa essenziale, poiché l’enorme dotazione energetica della Russia le consente di alimentare lo sviluppo tedesco a costi estremamente convenienti. Fino ad un certo punto, il gas russo arrivava in Germania attraverso le pipelines polacche ed ucraine. Poi la relazione russo-tedesca è diventata così essenziale da spingere il governo di Berlino a progettare la costruzione del Nord Stream. Non era solo una questione di aumentare la quantità di gas importato: aggirando Polonia ed Ucraina, la Germania ha provato a salvaguardare la relazione russo-tedesca dal possibile condizionamento che giurisdizioni politiche tendenzialmente anti-russe (ma anche anti-tedesche) avrebbero potuto esercitare sul transito delle risorse energetiche. Il progetto “Nord Stream” si caratterizzava come un modello di “disintermediazione”, in grado di tutelare la relazione bilaterale tra Berlino e Mosca, mettendola al riparo dalle dinamiche e dalle tensioni geopolitiche interne all’area atlantica. E sintomaticamente, quando viene varato, il ministro degli esteri polacco, Radek Sikorski, lo definisce il nuovo “Patto Molotov-Ribbentrop”.

Fermiamoci e proviamo a riflettere sull’enormità di quest’accusa: siamo nell’aprile del 2006, la Polonia è entrata nell’Unione Europea giusto due anni prima (mentre è nella NATO dal 1999) con un PIL sostanzialmente simile a quello della Grecia; e cosa fa? Prende di petto la potenza dominante dell’Europa che l’ha appena accolta, facendo carta straccia della retorica dominante nell’Unione, quella che la rappresenta come un giardino kantiano che si è lasciato alle spalle secoli di “power politics”. C’è un solo modo di spiegare questo enigma: la voce di Sikorski è la voce di Washington. Tant’è che a chi lo rimprovera di essere il cavallo di Troia degli Stati Uniti nell’Unione Europea, lui ribatte che la Germania lo è della Russia. L’assenza di adeguate risposte istituzionali – o anche solo tedesche – all’enormità delle accuse è la prova che già nel 2006 l’Unione Europea è un campo di battaglia nel quale gli americani entrano ed escono a loro piacimento. La UE come soggetto strategico si rivela semplicemente inesistente.

Nonostante l’avvertimento, la Germania fa finta di nulla. Sta zitta, incassa e continua a coltivare i suoi affari, ancora convinta che la commercializzazione della politica estera la renderà immune all’incipiente competizione strategica. La tempesta sta per arrivare, ma i tedeschi neanche se ne accorgono. In effetti, cosa fa la Germania dopo lo scoppio di Euromaidan? Dopo il colpo di Stato a Kyiv? Dopo l’annessione russa della Crimea? Dopo il varo delle sanzioni occidentali alla Russia? Raddoppia! Progetta e vara il “Nord Stream II”. La presunta confessione di Merkel alla fine del 2022 equivale ad una penosa ed insostenibile finzione.

Per quale ragione gli Stati Uniti decidono di punire la Germania? Perché oltre a fare affari con la Russia di Putin – un paese che in piena epoca unipolare intende conservare l’indipendenza strategica – la Germania inizia una lucrosa e promettente relazione industriale e commerciale con la Cina: dinanzi allo sguardo degli strateghi di Washington si dispiega l’incubo mackinderiano di un’Eurasia potente, ricca, interconnessa e sostanzialmente autonoma, che sul lungo periodo potrebbe anche emanciparsi dal potere talassocratico degli Stati Uniti.

Cosa accadrebbe, infatti, se sul lungo periodo i nuovi investimenti infrastrutturali e nuovi sistemi di trasporto ferroviario lungo tre differenti assi di sviluppo attraverso l’Eurasia, marginalizzassero le rotte marittime storicamente presidiate dalle flotte oceaniche di Washington? Ma se le cose stanno realmente prendendo questa piega, possono mai gli Stati Uniti restare immobili e contemplare lo svuotamento tendenziale del loro potere? È semplicemente impensabile. Per reagire, tuttavia, devono costruire una narrativa in grado di legittimare il ritorno di una guerra in Europa, che sia capace di spezzare nuovamente la continuità del supercontinente. E cosa fanno? Riabilitano l’immagine, storiograficamente potente, di un’Europa orientale vittima geopolitica della relazione privilegiata tra i due colossi (russo e tedesco), con  tutto quello che le memorie del Novecento significavano. In breve, per semplificare: la “Nuova Europa” (inventata da Rumsfeld) può contare sugli Stati Uniti per sconfiggere il nuovo “Patto Molotov-Ribbentrop”.>>

 

Fino a che punto la dottrina Brzezinski ha orientato la politica USA nei confronti dell’Ucraina?

 

<<Ci sono due binari paralleli. Brzezinski è il pensatore geopolitico più consapevole e più continuo della storia americana successiva all’esperienza in Vietnam. Il suo percorso incrocia, senza mai confondersi, lo sviluppo di una nuova generazione che – dopo la fine della guerra fredda – è realmente convinta del fatto che nella storia mondiale si stia producendo una discontinuità epocale, tale da consentire una ridefinizione del ruolo americano nel mondo in chiave pacifistico-imperiale. È ormai tale la distanza tra gli Stati Uniti e le altre potenze, che molti si convincono della possibilità dell’avvento di impero veramente mondiale, nel quale, in cambio della pace, tutti i paesi, anche quelli più potenti, rinunceranno alla competizione strategica, affidando agli Stati Uniti la tutela dell’ordine mondiale. Brzezinski non si fa mai contagiare da simili fantasie millenaristiche. Vuole la stessa cosa, ma sa che può essere solo il frutto di una paziente tessitura strategica.

Poiché negli anni Novanta la Cina è ancora un innocuo paese in via di sviluppo, l’unico compito americano è quello di cancellare per sempre l’indipendenza strategica della Russia post-sovietica: un compito assolutamente alla portata, vista la quasi disintegrazione del paese negli anni di Yeltsin. A quella virtuale disintegrazione (un “buco nero”, nelle sue parole) Brzezinski sa di aver fornito un memorabile contributo, con la costruzione della trappola afghana. Ma il personaggio è di origini polacche e l’ostilità anti-russa è talmente inestinguibile da tingersi di venture metafisiche. L’ossessione brzezinskiana per l’Ucraina (ne “La grande scacchiera” la cita 112 volte) nasce in relazione a questo compito: senza l’Ucraina non esiste più l’impero russo, neanche sul piano potenziale.>>

 

Un capitolo del tuo libro è intitolato “La fissione: logica dello Stato e logica del capitale”. Puoi dire qualcosa a riguardo?

 

<<La guerra russo-ucraina ha generato, prevedibilmente, un dibattito assai aspro, anche in ampi settori delle culture politiche anti-imperialistiche. Per brevità – e a rischio di semplificare eccessivamente – possiamo dire che la Russia di Putin ha cercato e realizzato, nei suoi primi anni di governo, una forte integrazione nella struttura internazionale del sistema capitalistico e, in modo particolare, nelle reti della finanza globale. D’altra parte è proprio questo elemento di novità a rendere insostenibile la pura e semplice riproduzione dello schema analitico della guerra fredda. Dalla constatazione di questa nuova realtà, molti sono stati indotti a interpretare l’invasione russa dell’Ucraina come un’aggressione imperialista, connotata dai peculiari caratteri del capitalismo politico della Russia putiniana. Il ciclo di accumulazione capitalistica realizzatosi, grosso modo, nel primo decennio del sistema putiniano, avrebbe generato un surplus di capitali la cui valorizzazione richiedeva la loro esportazione in aree di investimento, come l’Ucraina, inaccessibili senza il concorso del potere dello Stato, poiché esposte simultaneamente alla competizione di un potente capitalismo liberale transnazionale e alla resistenza delle classi medie professionali tendenzialmente liberali e votate ad un’integrazione con l’Occidente.

In questo quadro, l’Ucraina – oltre ad essere ostaggio di un’oligarchia interna della rendita – sarebbe diventata vittima della competizione tra due capitalismi esterni, quello transnazionale liberale e quello politico della Russia putiniana.

Nonostante i suoi indiscutibili elementi di pregio, questo dibattito si è avvitato sulle contraddizioni, ancora irrisolte, generate dal confronto con la realtà ed i suoi sviluppi: innanzitutto sulla natura del bonapartismo russo, sui caratteri e sui margini effettivi della sua relativa autonomia dalla struttura sociale che lo ha generato. Chi è Putin? Da dove deriva il suo potere? Di quale logica è il garante? L’inizio della crisi – cioè l’annessione russa della Crimea, nel 2014 – ha comportato la perdita significativa di capitali e mercati di esportazione, nonché di investimenti all’estero, una minore cooperazione con le società transnazionali e sanzioni personali contro molti rappresentanti di spicco del capitale russo. Otto anni dopo, la guerra del 2022 ha aggravato ad un livello inimmaginabile quella condizione. In breve, nella “lettura anti-imperialista” dovremmo mettere in scena un sistema di potere che per affermarsi deve frantumare il blocco-sociale sui cui si regge e segare il ramo su cui si siede. Credo sia un po’ troppo. Abbiamo dei fatti, ma non ancora una teoria in grado di spiegarli. Alternativamente (e ragionevolmente) che cosa possiamo dedurne, almeno per il momento? La sfida geopolitica ingaggiata in Ucraina indica che, posto dinanzi a un bivio, il Cremlino antepone, almeno nell’immediato, la logica dello Stato e della sua razionalità strategica a quella del grande capitale: una realtà che mal si concilia con la tesi secondo la quale il potere dello Stato russo non è fine a sé stesso, ma un mezzo per gestire il capitalismo russo post-sovietico e integrarlo nel sistema capitalistico globale.

Oggi non sappiamo ancora come risolvere l’enigma della scissione tra la logica dello Stato e quella del capitale. In realtà non sappiamo neanche se l’unitarietà del sistema capitalistico globale uscirà intatta dalla crisi che stiamo attraversando. Se dovesse rompersi, buona parte delle nostre categorie d’analisi diventerebbero improvvisamente inutilizzabili. Che senso avrebbe, ad esempio, distinguere tra capitalismo politico e capitalismo liberale, se il mercato mondiale venisse fratturato lungo linee di natura geopolitica e strategica?>>

 

Oggi, gli USA, considerata l’impossibilità di vincere la guerra contro la Russia, si direbbero orientati ad un “frozen conflict”, da usare come carta negoziale. Qual è la tua opinione in merito?

 

<<Semplicemente non sono in grado di anticipare alcunché. In linea di principio non sarebbe da escludere una soluzione di tipo coreano. Tuttavia non credo sia probabile. La guerra di Corea si interruppe sul 38° parallelo quando il “nuovo” sistema internazionale si era ormai consolidato in quei caratteri e in quella struttura che avrebbe conservato per circa quarant’anni. In questo senso, la guerra fredda fu una struttura d’ordine, più che un conflitto permanente (nell’ossimoro, il “fredda” pesava più di “guerra”). Oggi siamo, invece, alle fasi iniziali della decomposizione di un ordine. Siamo in una fase di “movimento”, nonostante la “guerra di attrito” prevalga sul campo di battaglia. E l’Occidente ha investito troppo del suo denaro, del suo capitale simbolico e della sua credibilità per accettare quella che si prefigura – altro che stallo! – come un’umiliante sconfitta. Spero vivamente di sbagliarmi. Ma sono queste considerazioni che mi rendono cupamente pessimista.>>

25 Jun 14:55

Gig work tra passato e futuro

by Bruno Cartosio

Puoi leggere un altro contributo dell’autore sul tema: Il gig work: lavoro autonomo o dipendente? Fatti privati o destini collettivi?

A ogni epoca i suoi precari, e sempre con gli Stati Uniti a tracciare la linea. Nel “libero mercato del lavoro” creato dalla combinazione di attacco neoliberista e tecnologie digitali, il lavoro precario ha anche cambiato nome: gig work. Ha preso a prestito l’etichetta dal mondo dello spettacolo, dove indica il “numero” che un attore senza compagnia è chiamato a fare se si ha bisogno di lui e per il quale è pagato. Chiamare gig questa modalità di lavoro occasionale, intermittente evoca la leggerezza dei palcoscenici, quasi che montare un armadio o guidare la propria auto per conto di qualcuno fosse come recitare una parte, suonare un pezzo o cantare una canzone. Il gig work è lavoro precario basato su rapporti a tre: le corporation che gestiscono le attività, gli individui che richiedono un servizio occasionale, le persone che prestano la loro opera a chiamata, senza vincoli contrattuali, per un compenso pattuito con l’azienda-piattaforma cui si rivolgono gli utenti tramite una “app” condivisa. Per questo le corporation-piattaforme cui i gig workers fanno capo classificano i prestatori d’opera come “lavoratori autonomi”, self-employed, invece che dipendenti, employed, a cui dovrebbero garantire un salario e tutti i benefits e le coperture assicurative e previdenziali che il rapporto di lavoro regolare porta con sé.
Le aziende eponime del gig work sono nate nella San Francisco dei ricchi: Uber e Lyft, rispettivamente nel 2009 e nel 2012, e prima ancora TaskRabbit nel 2008. Dopo quegli inizi il successo delle “piattaforme” e del loro modello di funzionamento è stato fulmineo. La grande crescita della domanda di gig workers, le cui prestazioni sono poco costose per le aziende e per gli utenti, hanno mutato i rapporti dei lavoratori con le stesse piattaforme. Non senza equivoci e ambiguità: per una parte di loro – in particolare per autisti e corrieri – la frequenza nella ripetizione delle prestazioni per una stessa piattaforma ha finito per ricalcare spesso rapporti di lavoro tradizionali. Ma senza riconoscimento formale: veri e propri mestieri e rapporti di dipendenza, che però avvengono al di fuori delle norme previste dalla legge su paghe, orario, coperture e responsabilità dei datori di lavoro. Le rilevazioni sondaggistiche dicono che sia alle piattaforme, sia agli utenti, sia alla metà dei prestatori d’opera, a ognuno per ragioni sue, il gig work va bene così. Tuttavia, contro la costrizione alla disponibilità pressoché perenne a cui i lavoratori sono chiamati dalle aziende, gli altrettanto perenni rischi, costi e precarietà a proprio carico delle condizioni di lavoro – le altre facce meno simpatiche della flessibilità e dell’autonomia individuale, vera o falsa che sia – l’altra metà dei gig workers ha dato vita a proteste e spinte rivendicative e iniziative per la regolazione legislativa della falsa autonomia dei singoli. I loro comportamenti e la loro condizione lavorativa e sociale sono stati oggetto di indagine da parte di enti e università.
Nel 2014, quando ormai nascevano come funghi le nuove piattaforme che «coniugavano individui sottoccupati con lavori occasionali», la giornalista Sarah Jaffe ne registrava sul Guardian l’intrinseca ambiguità: esse «attingono all’esistente bisogno di un reddito qualsiasi in un’economia sempre più costruita su lavoro a basso salario, o niente lavoro, e rispondono a un desiderio reale di flessibilità presente nei lavoratori.» Jaffe guardava a siti come TaskRabbit, l’antesignana nata per fornire “aiutanti” in grado di svolgere compiti come montare e smontare mobili, fare traslochi, consegne, pulizie e altri lavori domestici. L’obiettivo dichiarato di quella piattaforma, nelle parole del suo amministratore delegato, era «rivoluzionare il mondo del lavoro»; più semplicemente, invece, come emergeva dalle testimonianze sintetizzate dalla giornalista, la sua logica operativa era: frammentare il lavoro, isolare i lavoratori mettendoli uno in competizione con l’altro e pagarli il meno possibile. E Colin Crouch, nel 2019: nella «menzogna che sta al cuore della gig economy […] le aziende piattaforma raccontano ai loro lavoratori che sono imprenditori autonomi mentre in realtà sono “rotelle” subordinate e pesantemente monitorate di una grande macchina per generare profitti.»
La macchina cui Crouch si riferisce è la digital economy sulla quale, dopo la Grande recessione del 2008, gli apologeti riponevano grandi promesse. L’economia digitale, cioè «i miliardi di connessioni online» che quotidianamente mettono in contatto tra loro persone, attività economiche, macchine, dati e processi. Un presente che ha in sé il futuribile prossimo. Secondo Deloitte, «la spina dorsale dell’economia digitale è la iperconnettività, cioè lo stato di crescente interconnessione tra persone, organizzazioni e macchine che proviene da Rete, tecnologia mobile e Internet delle cose. L’economia digitale prende forma e mina alla radice le nozioni convenzionali su come le imprese funzionino e interagiscano e come i consumatori ottengano servizi, informazioni e beni.» Nel 2019, l’Adobe Communication Team definiva l’insieme delle attività «supportate dalla rete e altre digital and communication technologies come un’economia «guidata dai dati, caratterizzata dalla possibilità di raccogliere, usare e analizzare massicce quantità di informazioni al fine di fornire esperienze più significative e personalizzate.» Le nuove tecnologie informatiche hanno reso più accessibili in tempo reale le transazioni e le analisi dei dati: «Lo Internet delle cose, l’intelligenza artificiale e l’automazione fanno sì che i dati economici vengano raccolti e analizzati come transazioni ed eventi. Il che può ridurre gli effetti negativi prodotti dalle oscillazioni nella domanda nella catena delle forniture, mentre fornisce informazioni accurate che potenziano i processi decisionali dei dirigenti» grazie all’accresciuta possibilità di prevedere il futuro e indirizzarlo. E infatti la prassi rapidamente adottata dai dirigenti aziendali è puntare sull’utilizzo del digitale per il raggiungimento degli obiettivi primari delle imprese: l’aumento dei ricavi e dei profitti, l’incremento dell’efficienza operativa, la riduzione dei costi.
Per esplorare il nuovo territorio lo Aspen Institute organizzò nel 2015 un proprio gruppo di ricerca con l’obiettivo di indagare «la promessa delle opportunità e il futuro del lavoro.» Le esigenze e prospettive di dinamicità che la tecnologia offriva al capitale erano messe sulla bilancia con le altrettanto legittime, ma troppo spesso frustrate aspettative di ricompensa economica e sicurezza sociale del lavoro. Nel rapporto finale – pubblicato con un titolo ambizioso: Verso un nuovo capitalismo – la crescente nuova precarizzazione del lavoro e la sua interna contraddittorietà erano presentate come cruciali. Tanto che un anno più tardi lo stesso Istituto e lo storico Institute for Workplace Studies della Cornell University davano vita a un progetto di ricerca e raccolta dati sul passato e il futuro del lavoro, il Gig Data Hub, finalizzato a «fornire informazione ampia e accessibile a chiunque sia interessato a meglio conoscere gli obiettivi e la natura dell’odierno lavoro autonomo (independent) e intermittente (gig).»
Nell’attuale diversificazione dei servizi offerti il gig work si presenta come un’evoluzione del “vecchio” precariato fatto di occupazioni saltuarie e a tempo parziale o limitato in cui è l’azienda che fissa gli orari di lavoro e fornisce i locali e i mezzi di produzione a chi vende la propria forza lavoro. Le differenze rispetto ai vecchi modelli stanno nelle novità rese possibili dalle innovazioni tecnologiche, cui si collegano le trasformazioni nella collocazione del lavoro nella società, la svalutazione delle specificità di mestiere dei singoli e l’estraneità di gran parte del gig work alle vigenti leggi che regolano il mercato del lavoro e impongono oneri a carico delle imprese.
Le figure su cui si è costruita l’immagine-tipo del nuovo lavoratore “autonomo” e flessibile sono stati gli autisti (drivers) a chiamata di Uber e subito dopo di Lyft, le due aziende che ancora oggi dominano e si dividono il loro mercato specifico. Non c’è dubbio che sia attraente la convenienza di ricevere un colpo di telefono invece di sbattersi per cercare un lavoro qualsiasi, la possibilità di sommare gigs a un altro lavoro più o meno stabile per aumentare il proprio reddito, il privilegio di poter decidere se si è disponibile o no e per quanto tempo. La momentanea prestazione ha luogo con mezzi propri e altrove rispetto alla sede dell’azienda che gestisce il sistema ed è messa in moto dalla chiamata della piattaforma. Poi il guidatore di Uber e simili – rimanendo al tipo originale – si siederà al volante della propria auto, pagandone di tasca sua assicurazione, carburante e usura, per portare qualcuno da un luogo all’altro della città. Per altri la prestazione sarà diversa – i fattorini useranno la bici e i traslocatori il furgone, mentre i dog-sitter vanno a piedi… – ma la triangolazione tra piattaforma, utente e prestatore d’opera è sempre la stessa.
La pratica del gig work si è estesa quasi subito ad altre piattaforme e altri settori di attività. Quando ancora ci si stupiva della rapidità con cui la gig economy si stava espandendo, la si illustrava elencando i nuovi “autonomi”: lavoratori del piccolo commercio, fattorini vari e addetti alla spesa e alle consegne, uomini di fatica e donne delle pulizie, cuochi, domestici e badanti, babysitter e dog-sitter, fino a includere – già alla metà del decennio 2010-20 – anche appartenenti al «mondo delle professioni specialistiche: infermieri e medici, insegnanti, programmatori, giornalisti, esperti del marketing e…sì, anche avvocati.» Così scriveva la studiosa californiana Orly Lobel nel 2016 in una relazione all’Università di San Diego il cui oggetto era proprio il problema giuridico della classificazione dei nuovi prestatori d’opera. Infatti, anche se sono evidenti le diversità di fatto tra la prestazione di un autonomo reale (self-employed o independent contractor, o freelancer) e quella di un falso autonomo o di un dipendente (employee), la questione della classificazione si offre a una varietà di interpretazioni e soprattutto di interessi in gioco, di costi e di benefici per le piattaforme e per gli stessi gig workers.
Questi ultimi, oggi, sono milioni. Nel 2018, prima della pandemia, Gallup stimava che il 36 per cento di tutti i lavoratori negli Stati Uniti – circa 57 milioni di persone – erano gig workers. Le sue stime erano inclusive e abbracciavano tutti quelli che sommavano secondi o terzi lavori alla loro occupazione primaria, «dai lavoratori delle piattaforme (come Uber o TaskRabbit) agli autonomi freelance, agli infermieri a contratto, ai tempi parziali.» Nel 2021, in una ottica più restrittiva, il Pew Research Center restringeva al 16 per cento la quota di donne e uomini «che hanno guadagnato denaro tramite una piattaforma gig online in almeno una delle seguenti attività: guida per una app che procura le corse “tassistiche”; acquisto o consegna della spesa per conto di terzi; svolgimento di servizi domestici come pulizie della casa, sistemazione dei mobili, ritiro della roba in lavanderia; consegna di cibi per conto di ristoranti o di negozi prenotata tramite app; impiego del veicolo personale per la consegna di pacchi richiesta tramite app o siti come Amazon Flex; altri servizi di natura analoga a quelli elencati.»
I primi a essere investiti dall’onda anomala della nuova precarietà del lavoro nell’economia digitale sono stati i territori bassi e già malsicuri del lavoro manuale: maschi e femmine in un quasi equilibrio; in prevalenza latinoamericani, seguiti da neri e asiatici e, a distanza, bianchi; soprattutto giovani compresi tra i 18 e i 29 anni appartenenti alla lower class. Poi l’onda è arrivata alle terre alte delle professioni, come si è detto. «Molti professionisti,» scriveva Forbes nel 2022 con intenti rassicuranti, «continuano ora a offrire gli stessi servizi che offrivano dal posto di lavoro regolare, salvo che ora lavorano per sé stessi.» Ma l’onda che è arrivata ai professionisti aveva perso buona parte della sua forza distruttiva; cavalcarla, per loro, è stato meno arduo che per tanti altri. E naturalmente non sono loro le prime figure sociali che vengono in mente quando si pensa ai gig workers. La pandemia ha ulteriormente alterato il quadro sociale generale, privando del lavoro milioni di persone e approfondendo le disuguaglianze. A molti degli occupati stabili venne offerto-imposto il telelavoro. Nell’autunno 2021 Gallup rilevava che quasi metà degli occupati a tempo pieno era in home work e che la percentuale delle giornate così lavorate è schizzata dal 5 al 60 per cento all’inizio della pandemia (è scesa poi progressivamente, stabilizzandosi intorno al 25 per cento nel 2022). Invece gli occupati nei “lavori necessari”, stabili o meno, dovevano restare al lavoro nei servizi e trasporti pubblici, negli ospedali, nei supermercati (spesso contagiandosi, come hanno detto le statistiche). E nel 2020-21 i redditi dei part-time, precari e saltuari diminuivano o crollavano.
I due terzi dei white collar stabili lavoravano da casa e nove su dieci di loro non solo prevedevano che il telelavoro sarebbe continuato nei mesi futuri, ma esprimevano la speranza che quell’arrangiamento lavorativo, grazie a cui la riduzione delle spese fuori casa equivalevano a un aumento di paga, fosse prolungato nel tempo a venire. E mentre una quota di lavoratori si dichiarava intenzionata a dimettersi dal posto di lavoro se gli si fosse richiesto di rientrare stabilmente in sede, molti altri erano a favore della soluzione ibrida, con parte del tempo di lavoro in sede, parte a distanza. Questo non era gig work, ma in un modo o nell’altro, l’allontanamento forzato dal lavoro e dai luoghi di lavoro apriva ulteriori spazi di legittimazione anche per l’idea base e la pratica del gig work: dalla parte dei lavoratori, prospettive di utilizzo flessibile del proprio tempo e di “liberazione” dal posto di lavoro vincolato agli orari fissi e ai controlli gerarchici, disagi, costi e tempi morti del pendolarismo; dalla parte degli imprenditori, l’opportunità di avere prestazioni lavorative a basso prezzo perché sgravate ora del carico delle responsabilità aziendali, dei costi di assicurazioni e pensioni e di manutenzione degli impianti. Le differenze sono significative. La grande maggioranza degli oltre venti milioni di licenziati, sospesi o non utilizzati nel biennio della pandemia apparteneva alla fasce sociali più basse, i cui redditi di partenza erano al di sotto o poco al di sopra della linea della povertà. Molte persone e famiglie furono salvate dai sussidi straordinari istituiti dalle amministrazioni Trump e Biden a partire dal marzo 2020 (Cares Act e Rescue Act, per 5,1 miliardi di dollari complessivi) e dalle poche forme di gig work praticabili nella socialità ristretta. Ma su un altro piano, l’espansione del telelavoro e dei consumi online spianò la strada della “uberizzazione” delle nuove tipologie occupazionali diverse dal guidare un auto o fare una consegna.
Poi, ai primi segni che il peggio si stava allontanando (prima ancora della vera e propria ripresa economica), nel mondo del lavoro avvenne l’inatteso: il passaggio dalla sofferenza all’insofferenza. Il primo scatto di reazione fu la vasta sollevazione sociale seguita all’omicidio poliziesco di George Floyd del maggio 2021, poi vennero la crescita di conflittualità nel lavoro, che nell’autunno dello stesso anno fu salutata con l’etichetta mediatica di Striketober, ottobre degli scioperi, e i milioni di abbandoni dei “vecchi” posti di lavoro – la Great resignation – da parte di persone che speravano di trovare qualcosa di meglio retribuito nel dopo recessione, o che intendevano mettersi in proprio e diventare freelancer, o ancora che pensavano al gig work come a una opportunità per rispondere, almeno nell’immediato, ai propri bisogni elementari. Nel 2020, secondo Gallup (che citava il Ministero del Lavoro), il 48 per cento degli americani adulti – la percentuale più bassa dal 1983 – erano occupati a tempo pieno e poco più della metà di loro era in cerca di un altro posto di lavoro.
Altrove abbiamo messo in evidenza come il risveglio di combattività nei luoghi di lavoro – lontana da quella dei momenti alti, e tuttavia rottura della «calma piatta» dei primi anni Dieci – e l’abbandono del posto di lavoro sgradito si possano vedere come due facce della stessa insofferenza. Altri segnali, abbiamo sottolineato, puntavano nella stessa direzione: l’aumento, rilevato dai sondaggi nel 2022, degli atteggiamenti favorevoli nei confronti dei sindacati e di disponibilità a farne parte, se e quando fossero presenti nei luoghi di lavoro; l’aumento delle richieste di autorizzazione a votare per introdurre l’organizzazione sindacale nelle aziende; la crescita delle denunce per azioni antisindacali contro le imprese, della militanza di base e dei tentativi di organizzazione sindacale e parasindacale o solidaristica contro l’assolutismo imprenditoriale. A tutti questi segni di un ritorno di reattività – inevitabilmente priva di “grandi” progetti, ma tanto più significativa quanto più inattesa – ha risposto l’amministrazione Biden, rifinanziando il National Labor Relations Board (Nlrb) e cercando di far approvare il Protecting the Right to Organize Act (Pro), finalizzato a eliminare le strettoie antisindacali del passato e rendere più facile la sindacalizzazione dei luoghi di lavoro.
In parallelo con la nuova combattività collettiva, mentre tornavano a crescere domanda e offerta di lavoro, venivano messi sempre più in discussione anche il rapporto individuale con il gig work e la contraddizione tra autonomia (largamente falsa) e dipendenza (in gran parte vera, e sottopagata) su cui si reggono l’esistenza e il funzionamento del “libero mercato del lavoro”. Tra i giovani delle minoranze, che costituiscono il 70 per cento di gig workers, il tasso di disoccupazione è più alto (per i neri è doppio rispetto ai bianchi) e il fatto che sia naturale, entro certi limiti, che prendano quello che trovano nel mercato del lavoro, non esclude insofferenze e malcontenti per come sono trattati. È più che probabile che il gig work nei servizi poveri sia più facile da trovare o anche, soggettivamente, sia preferito rispetto al “vecchio” modello di lavoro precario da dipendente, stretto entro i confini rigidi di muri, orari, salari, norme. Per molti di questi giovani la precarietà è condizione normale di vita: il quasi mezzo secolo in cui essi sono nati e cresciuti è quello della sconfitta del più grande ciclo di lotte operaie della storia statunitense (1966-75) e della indocile «nuova razza operaia» uscita dalla stagione dei movimenti. Due generazioni. Se un qualsiasi progetto di ricomposizione è rimasto fuori portata per i tanti che rimanevano a lavorare fianco a fianco, come si può pensare che venga fuori dalle solitudini dei gig workers? Era dunque inevitabile che quei giovani prendessero per buone le promesse del gig work, e che le loro scelte avvenissero nel contesto di questo capitalismo e dell’ideologia dominante dell’individualismo, presentatigli entrambi come garanti di un modello di vita, lavoro e relazioni sociali gratificante, rispettoso dell‘autonomia personale e paradigma certo del “futuro del lavoro”.
Non è mancato chi ha denunciato le trappole del vecchio e nuovo precariato del lavoro nella temp economy e nella digital economy neoliberiste, né chi ha cercato di dirimere a livello istituzionale l’equivoco tra self-employed e employee; ma ad avere la meglio sono stati finora i più numerosi apologeti mediatici del gig work senza distinzioni. Senza la vittoria politica e culturale sul mondo del lavoro e la distruzione delle collettività operaie degli scorsi decenni, di cui le “vecchie” precarietà sono prova, le reazioni e resistenze nei confronti delle nuove precarietà dell’economia digitale sarebbero state maggiori e più pronte. Invece è solo ora che molti tra i gig workers sono entrati in agitazione: dopo avere vissuto l’inganno sulla propria pelle, e anche grazie agli esempi venuti dai lavoratori in subbuglio in tanti luoghi di lavoro di tutti i settori. È di questo che diamo conto nel saggio presente qui a fianco.

 

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10 Apr 15:32

Sui giovani d’oggi ci monetizzo su: Sei vecchio di Vincenzo Marino

by minima&moralia

di Armando Vertorano

È innegabile che tra la Generazione Z e quelle precedenti – Millennial, Generazione X, o più in generale i cosiddetti boomer – si sia alzato un muro di diffidenza e incomunicabilità, fatto non di analogici mattoni, ma di impalpabili piattaforme digitali. I ragazzi ci si sono ormai rintanati e lo usano come una novella lingua farfallina per difendere i propri segreti, ma neanche i “grandi” sembrano intenzionati ad aprire uno spiraglio per sbirciare cosa succede dall’altra parte. Spesso infatti preferiamo liquidare i prodotti di e per la Gen-Z come un coacervo di immonde brutture il cui successo è incomprensibile, rifugiandoci a nostra volta nell’ennesima operazione nostalgia che ci riporti a quegli anni ’80 e ’90 in cui eravamo tutti migliori e felici.

Vincenzo Marino, autore di Sei vecchio – i mondi digitali della Generazione Z, edito da Nottetempo, tenta l’eroica impresa di calarsi dall’altra parte di quel muro. Classe 1986, quindi pienamente etichettabile come Millennial, per scrivere questo libro fa un po’ come Morgan Spurlock in Super Size Me: si abbuffa letteralmente di dirette Twitch, di canali Youtube, di reel di TikTok, mostrandoci in prima persona l’effetto che fa.

Marino non è nuovo all’indagine su contenuti e trend della Gen-Z, li indaga da tempo nella sua newsletter Zio. In Sei vecchio raccoglie i frutti delle sue esplorazioni, restituendo un’analisi oculata, supportata da dati, documenti, interviste e condita con un tono sottilmente ironico, a tratti perfino beffardo – ma mai giudicante – intuibile già dal titolo. E del resto chi, come molti over 40, continua a fare un uso dei social ormai ‘superato’, non può che sentirsi vecchio di fronte a quel mondo di streamers e di tiktokers che Marino ci spalanca davanti agli occhi: creators che godono di una fama impensabile nell’universo Gen-Z, mentre noi, al di qua del muro, non li abbiamo neanche mai sentiti nominare. Peggio di quando andavamo da nostra nonna a parlarle di Michael Jackson, insomma.

Così tra le lunghe ed estenuanti dirette in cui Gennaro, detto GSkianto, permette ai suoi follower di svegliarlo in modi atroci mentre dorme, i panini “con mollica o senza” farciti dal salumiere-star Donato De Caprio e altezzosi commentatori come ilMasseo che letteralmente ‘vendono’ ai fan le proprie reactions di fronte a programmi televisivi, Marino ci racconta l’ascesa e talvolta la caduta di questi personaggi come una sorta di epopea anti-epica, in cui dapprima soldi e successo arrivano rapidamente e quasi senza sforzo – del resto chi non ha mai sognato di guadagnare giocando ai videogame? – ma poi la crudeltà dei fan, il bisogno costante di rinnovarsi e l’ansia di non riuscire a tenere il passo arrivano ben presto a presentare il conto. Questi giovani pionieri della monetizzazione però non rinunciano a esporsi nemmeno quando vanno in burnout, quando subiscono un crollo emotivo dovuto a dirette protratte oltre l’umana sopportazione o vanno nel panico dopo un permaban, una specie di damnatio memoriae dell’epoca digitale. In questi casi anche i pianti o la depressione esibita sono un’occasione per guadagnare visualizzazioni o per recuperare follower persi, non importa quanto umiliante possa essere.

 Sei vecchio non è solo un catalogo di storie dal mondo digitale. Marino ci fa anche notare come le piattaforme stiano diventando sempre meno uno strumento per comunicare e sempre di più un mezzo per guadagnare. Chi posta qualcosa, chi fa una diretta, non ha più il desiderio di conoscere nuove persone o semplicemente mettersi in mostra, ma lo fa inseguendo l’utopia di quel successo improvviso che l’algoritmo può darti da un momento all’altro, purché si riesca a intercettare il trend giusto. Quelli che noi ancora chiamiamo social network, reti sociali, piattaforme fatte per unire persone lontane – o semplicemente per farci i fatti loro senza essere visti – stanno perdendo la loro caratteristica social, verso una spiccata impronta individuale, dove ognuno è lì per tentare la fortuna, per costruirsi una nicchia più o meno grande di ascoltatori.

Questo grande movimento di denaro e di pubblico non solo ha attirato l’attenzione del Mercato con la M maiuscola, quello delle grandi multinazionali della comunicazione, ma ha addirittura suscitato l’interesse di una politica che fino a poco tempo fa sembrava ignorare totalmente quella fascia d’età. Forse mai come in quest’epoca gli adolescenti e post-adolescenti sono stati così tanto sotto i riflettori, e forse mai prima erano stati dei così bravi imprenditori di se stessi.

Il futuro prossimo che dunque si va delineando dall’analisi di Marino è quello di un sistema in cui la differenza tra pubblico e creators si assottiglia fin quasi a diventare inesistente. Nessuno si limita più a guardare senza creare a sua volta contenuto, in un sistema che si autoalimenta a velocità quasi insostenibile, producendo rapidi introiti, competitività al cardiopalma e traumatiche ansie da prestazione.

Al termine della lettura non si può allora fare a meno di chiedersi: questa evoluzione sarà poi davvero un male? Si stava meglio quando si stava peggio o tutto questo è un confuso preludio a nuove e interessanti forme di comunicazione?

Prima che questa risposta arrivi con chiarezza forse ci vorrà il tempo necessario a far cadere altri muri, a tirarne su di nuovi e a demolire anche quelli.

Noi ce ne staremo lì, a guardare i cantieri.

 

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11 Dec 23:03

Tutte le BALLE sulla RUSSIA raccontate dai giornali

Un video strepitoso di Andrea Lombardi del canale C'è di peggio


[Grazie a De Chirico per la segnalazione].

15 Oct 12:49

La società piatta

by Giulio
Articolo di Vincenzo Scalia

Negli ultimi trent’anni, la questione della sicurezza, ha colonizzato l’agenda pubblica italiana, fino a culminare nella vittoria, nelle due ultime tornate elettorali, di forze politiche e schieramenti che fanno di legge e ordine la loro bandiera. In realtà, dietro il securitarismo, allignano questioni molto più complesse delle manette facili, che portano a interrogarsi sui fondamenti e sulla solidità degli assetti sociali e politici attuali. L’ultimo lavoro di Tamar Pitch, Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva (Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2022), costituisce un valido strumento attorno al quale articolare una riflessione demistificatoria delle tematiche della sicurezza.

Sin dalla metà degli anni Ottanta, assistiamo allo slittamento di significato del termine sicurezza che, dall’indicare una condizione sociale, passa a essere focalizzato sull’incolumità individuale, compiendo la traslazione che Alessandro Baratta definiva «dalla sicurezza dei diritti al diritto alla sicurezza» (Alessandro Baratta in Anastasia, S., Palma, M., La bilancia e la misura, Franco Angeli, Milano, 2001): l’Italia assimila con un decennio di ritardo questo cambiamento, che in Gran Bretagna, sin dai primi anni del governo di Margaret Thatcher, ha avviato progetti di prevenzione situazionale, ovvero mirati a rendere asettico l’ambiente esterno attraverso illuminazione pubblica e arredi urbani contro le «classi pericolose». In Francia, il governo socialista, ha promosso progetti ad ampio raggio di ristrutturazione urbana delle banlieues, senza tenere conto della questione  sociale. Oltreoceano, il processo di securitarizzazione, è stato molto più marcato: da un lato, attorno alla privatizzazione della sicurezza, si è gradualmente sviluppato un mercato di polizie private e gated cities, ovvero le città fortezza dove i condomini votano addirittura se consentire alla madre di uno dei residenti di entrare nel complesso residenziale . Dall’altro lato, le politiche pubbliche improntate alla Tolleranza Zero, hanno trovato il loro compimento nella sindacatura di Rudolph Giuliani a New York. Attraverso un percorso di distruzione dello spazio pubblico che, dalla repressione delle cosiddette «inciviltà urbane» si snoda per la repressione dei crimini di strada veri o presunti (ricordiamo i 51 colpi che uccisero l’immigrato ghanese Amadou Diallo), approda a un uso ipertrofico della penalità, col numero dei detenuti nelle prigioni Usa che tocca i 4 milioni alla metà del primo decennio del 2000.

La trasformazione della sicurezza in una questione individuale corrisponde perciò a una vera e propria ingegneria sociale, in cui le classi subalterne diventano «classi pericolose», da espellere, sfrattare, vigilare, arrestare, condannare, all’interno della cornice in cui lo Stato sociale diventa Stato penale. Dall’altro lato, tra i gruppi sociali affluenti, prende piede il paradigma della vittima, rappresentata come un soggetto debole, indifeso, spaventato da potenziali aggressori, bisognoso di protezione sia da parte del contesto sociale di riferimento che dalle istituzioni statuali. Una società frammentata, individualizzata, priva di un denominatore comune che non sia la ricerca di un capro espiatorio di turno, è una società in preda alla paura, che chiede protezione anche a costo di rinunciare ai diritti fondamentali. In questo vuoto identitario e progettuale che si produce in parallelo all’avanzare del neoliberismo , il ruolo della vittima, sempre più identificato con la donna, diviene l’unica possibilità per accampare rivendicazioni. Ci troviamo, sottolinea Tamar Pitch, davanti a un mutamento strutturale, che si articola su tre piani. 

In primo luogo, se prima le rivendicazioni venivano avanzate sul piano collettivo, per esempio da operai, afroamericani, donne, popolazioni colonizzate, adesso si esprimono sul piano individuale. In secondo luogo, se le rivendicazioni prima si contraddistinguevano per uno slancio egualitario, ci troviamo di fronte a un quadro contraddistinto dalla precondizione di accettazione della propria debolezza, all’interno del quale è meritevole di sostegno soltanto chi accetta di avere bisogno di protezione. Si tratta di un passaggio epocale significativo, in particolare in relazione alla condizione della donna. Se la sicurezza è a misura di individuo, ed è elargita a partire dall’accettazione della propria debolezza, le donne debbono assumere dei comportamenti auto-limitanti, a partire dalla riduzione delle uscite serali e della scelta di un abbigliamento sobrio. In caso contrario, le si attribuisce la responsabilità di aver provocato l’aggressore, secondo la nota formula «te la sei cercata». In terzo luogo, il paradigma della vittima, si connota per essere l’epifania della società piatta, ovvero un aggregato sovra-individuale caratterizzato da conflitti orizzontali, che si verificano tra gruppi che competono per lo status di vittima, finalizzato all’ottenimento di protezione e prebende da parte dello Stato. Dagli oppressi, nome collettivo, rivendicativo, si passa alla vittima, nome singolo, passivo.

Le conseguenze della società piatta, si riverberano sui rapporti sociali e sulle dinamiche politiche, in quanto delegano al penale la risoluzione dei conflitti e delle contraddizioni che animano la contemporaneità. Sotto questo profilo, la richiesta di legge e ordine, si configura come una vera e propria delazione di massa, con un gruppo pronto ad accusare l’altro in funzione della necessità di togliergli spazio nella competizione per il riconoscimento della vittima. Così gli autoctoni competono coi migranti, che competono con le donne, in un circolo vizioso saldato dalla domanda di legge e ordine. All’interno della società contemporanea, la vittima si ritrova sottoposta a sottostare alla duplice condizione di essere innocente e passiva. Deve aver subìto, non agito, e non deve essere stata coinvolta in episodi che l’hanno «messa nei guai». E non si tratta soltanto di agiti attinenti alla sfera sessuale, bensì anche di prese di posizione messe in atto sui luoghi di lavoro o in altri ambiti della sfera pubblica. L’essere accuditi, assistiti, risarciti, passa per la rinuncia a un ruolo di protagonismo pubblico e collettivo. In cambio del sostegno, del risarcimento, il potere richiede conformismo e sottomissione, adesione acritica a criteri valoriali e comportamentali elaborati e proposti dall’alto.

Una società incentrata sulla vittima, sulla sicurezza come conseguenza individuale, gestisce le curvature che attraversano il suo spazio attraverso il penale, criminalizzando l’avversario. Le minacce all’ordine neoliberale arrivano sempre dall’esterno, da anomalie che vanno rimosse, allontanate, affrontate con la massima durezza. Da qui troviamo l’istituzione di carceri come Guantanamo e Abu Ghraib, luoghi dove la produzione della distruzione di cui parla Michel Foucault, trova la sua concreta attuazione su individui appartenenti a gruppi selezionati attraverso il calcolo attuariale e ritenuti «a rischio» per le loro connotazioni politico-culturali. Una volta l’universo penitenziario funzionava come tappa intermedia per l’integrazione sociale all’interno della società industriale, dove i detenuti interiorizzavano la disciplina funzionale alla produzione seriale di beni e servizi. Nella società contemporanea, il carcere funziona in maniera opposta, ovvero come dispositivo votato all’incapacitazione collettiva. Operai, disoccupati, precari, migranti, rifugiati, attivisti, donne, Lgbtqi+, consumatori di stupefacenti, vengono collocati all’interno delle strutture detentive allo scopo di essere messi in condizione di non nuocere ai flussi economico-relazionali innescati dal neoliberismo. 

All’interno di questo contesto, improntato al punitivismo di massa, si vorrebbe spingere anche il femminismo a cambiare pelle. Nato e sviluppatosi come movimento di emancipazione collettiva delle donne, cementato dalla condivisione delle esperienze di sopruso e sfruttamento, che alimentavano un progetto di società libertaria ed egualitaria, si tenta di ridurre a femminismo punitivo, parametrato sulla donna come individuo-vittima, che chiede al potere l’implementazione di misure restrittive e repressive. È l’idea mainstream di un femminismo debole, ridotto a identità posticcia, che chiede accoglienza al potere neoliberista, perdendo la sua carica antagonista ed emancipativa. La conseguenza più immediata è quella di un rigonfiamento della sfera penale, assurta a vero e proprio regolatore dei conflitti, con un aumento della punitività a discapito delle prerogative di uguaglianza di fronte alla legge e dell’innocenza fino a prova contraria. Inoltre, il fatto che razzismo, omofobia, sessismo siano passibili di conseguenze penali, non rappresenta una garanzia che questi fenomeni scompaiano dalle dinamiche sociali. Piuttosto, all’ombra del politicamente corretto mediato dal penale, alligna una società sempre più autoritaria. In secondo luogo, le conseguenze peggiori sono proprio per le battaglie femministe. Se le donne, come gli Lgbtqi+ e  le altre minoranze, abdicano al loro ruolo di protagonismo collettivo per delegare la risoluzione di disuguaglianze e discriminazioni alla sfera penale, diventano categorie deboli, da proteggere. Ne consegue che ogni spinta verso il protagonismo viene etichettata come sovversione, pericolo per l’ordine sociale, riaffermando il patriarcato. È il caso della Gestazione per Altre (Gpa), che la lettura dominante ha ribattezzato come «utero in affitto», innescando una pluralità di narrazioni che, in nome della protezione del corpo femminile, criminalizzano sia le donne che vogliono diventare madri attraverso la Gpa, sia quelle che acconsentono a donare gli ovociti e a portare avanti la gestazione. 

Il tentativo di depotenziare il femminismo da parte della società piatta, con la sfera penale assurta a regolatrice delle conflittualità, investe la società contemporanea nel suo insieme, a partire dai suoi principi fondativi. Se prima si parlava della rule of law, con le leggi a presidio delle interazioni tra individui e gruppi, oggi ci troviamo all’interno della law of rules, imperniata su di una pluralità di regolamenti particolari a normare su situazioni specifiche, con la repressione sullo sfondo, in un’ottica di privatizzazione del discorso pubblico, dove la punizione si configura per essere un risarcimento collettivo nei confronti della vittima. Si tratta dello stesso schema della pena di morte negli Usa, dove lo Stato, al momento dell’esecuzione, invita i parenti della vittima ad assistere, come ad assicurarli di avere ottemperato al risarcimento promesso. 

All’interno di questa cornice marcatamente punitiva, anche la giustizia riparativa si svuota della sua carica alternativa al processo penale, per assumere un ruolo ancillare rispetto all’impianto repressivo dominante. Innanzitutto, perché l’utilizzo della giustizia riparativa è limitato soltanto ai reati dove esistono un reo e una vittima, riproducendo lo schema del contratto privato tra due parti. In secondo luogo, l’applicazione delle misure di giustizia riparativa, passa per una serie di pressioni e ricatti messi in atto sia verso l’autore che verso la vittima del reato. Per esempio, l’autore potrebbe trovare conveniente accettare la mediazione per evitare la galera, o la vittima potrebbe preferire convenire a una riparazione per schivare la possibilità di finire sulla ribalta mediatica qualora dovesse avere luogo un processo penale. In terzo luogo, la giustizia riparativa si caratterizza per un forte sostrato moralista, nella misura in cui si chiede al colpevole di pentirsi per usufruire della possibilità di essere perdonato. Infine, attraverso la mediazione, si chiede implicitamente all’imputato di ammettere la sua colpevolezza, aggirando così il principio di presunzione di innocenza su cui si fonda la giustizia dei paesi democratici. A fianco di questo aspetto, si sviluppa l’insistenza sul dialogo e sulla comunicazione, ovvero la convinzione che, attraverso il sistema penale, possa essere possibile sanare le lacerazioni che la commissione di un reato produce sul corpo della società, rimuovendo così il conflitto e la manifestazione di soggettività. Una rappresentazione forzata e posticcia della collettività come insieme armonico, su cui però pende la spada di Damocle della sfera penale, se nell’immediato rimuove i conflitti, a lungo termine rischia di inasprirli.

La manifestazione concreta della società piatta, fondata sulla paura, sostiene Pitch, l’abbiamo avuta nel corso della pandemia che ci ha colpiti del 2020. A fianco dell’avocazione e implementazione di poteri assoluti da parte dell’esecutivo, si è registrato l’apice del securitarismo, coi cittadini ristretti all’interno delle proprie case e la paura che veniva veicolata dai media attraverso gli esperti di turno, mentre i giovani venivano additati come capri espiatori, e l’emergenza sanitaria veniva utilizzata come pretesto per vietare le manifestazioni, all’interno di una retorica guerresca dove i no green pass erano additati come i nemici. 

Come si inverte la tendenza securitaria? Stefano Padovano, nel suo ultimo libro, La sicurezza urbana. Da concetto equivoco a inganno (Meltemi, Roma, 2021), mostra come gli interventi orientati verso il welfare rappresentino un canale di integrazione sociale robusto, che sconfigge il securitarismo. In merito a come approdare a questo approccio, Stefano Anastasia, nella sua curatela Polarizzazione sociale e sicurezza urbana (Carocci, Roma, 2021), sottolinea la necessità di promuovere una sicurezza plurale, integrata, dove migranti, donne, Lgbtqi+, rifugiati e gli altri gruppi sociali, contribuiscano in modo decisivo a definire le politiche di sicurezza. Libertà, diceva Giorgio Gaber, è partecipazione. E vera sicurezza, ci viene da aggiungere. 

*Vincenzo Scalia è Professore Associato di Sociologia della Devianza all’Università di Firenze. Si occupa di carceri, polizia, criminalità organizzata, minori. Ha insegnato in Italia, UK, America Latina. Suoi lavori sono tradotti in quattro lingue. 

L'articolo La società piatta proviene da Jacobin Italia.

28 Jun 14:47

Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, II

by TempoFertile

 

“Critica della Critica – il postmodernismo”

 

 

 

Questa è la seconda puntata di tre della lettura del libro di Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, uscito per l’editore Meltemi nel 2020.

-          Nella prima parte è stato trattato il processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici per come emergono dal testo in esame,

-      In questa seconda parte proveremo a ricostruire la lettura che il libro compie dei “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,

-          Nella terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

 

 


Venendo alle tendenze ideologiche che strutturano dall'interno il fenomeno neoliberale e cioè a quelle che Zhok chiama i “Regimi” della ragione liberale, ovvero i “Regimi di libertà” o “Regimi di ragione”, si può provare a dire in questo modo: si tratta di un sistema di motivazione o di giustificazioni, ma capaci di dare forma a pratiche sociali reali. Non si tratta meramente di sovrastrutture. Il liberalismo è, in altre parole, profondamente interconnesso con la linea di sviluppo emersa nel lungo periodo anche nel mutare delle condizioni economiche e di quelli che il marxismo chiama “modi di produzione” (‘schiavista’, ‘feudale’, ‘mercatista’, ‘capitalista’). Il testo dice, confermando la propria ambizione, che “affonda le proprie radici in tendenze storiche di lungo periodo”. Frase di enorme portata, a ben vedere, perché nella sua potente metafora naturalista (“radici” e “tendenze”, che rinviano nella loro associazione all’immagine di un seme dal quale scaturisce un albero) sembra confermare un destino. Inoltre, un destino dell’occidente (in quanto, come abbiamo visto, la ‘radice’ più profonda è posta nel linguaggio scritto). Anzi, nella struttura più intima di questo, la forma di scrittura alfabetica come “base di consolidamento dei tratti individuali nei soggetti umani”. La ‘nascita dell’individualismo’ sarebbe dunque una “specificità inizialmente europea” come scrive, e, da questa, scaturirebbe la forma della logica che determina il sorgere di alcune specifiche tradizioni letterarie come la filosofia, la storia, il diritto[1]. Delimiterei questa affermazione, che suona troppo larga, negli scopi del testo e dentro la decisione che lo apre e situa: individuare la linea evolutiva della nostra forma, per come si è materialmente data (ovvero quella che porta al liberalesimo). Bisogna intendersi, l’operazione è di enorme difficoltà, da una parte notare con che cosa si sia fatti è, a rigore, un’operazione impossibile. Siamo sempre dentro la nostra lingua, senza la quale non possiamo pensare, e siamo nell’abitare dei suoi concetti chiave, come, appunto “libertà”, “essere”, “trascendenza”, “immanenza”, “dio”, etc.  (ma possiamo parlarne, e aumentarne la comprensione). Dall’altra, l’idea guida secondo la quale ‘la chiave della fisiologia della scimmia è nell’uomo’, che pare implicata qui, presupporrebbe ciò che vuole dimostrare. Si appoggerebbe, cioè, su una sorta di ‘filosofia della storia’ determinista. Sarebbe, con ciò, pacificamente dimostrato che l’individualismo, che esita nella società moderna per effetto delle componenti che Zhok correttamente mette in mostra, sia presente già nella ‘scimmia’ e da questa si sia sviluppato secondo la sua potenza. Anzi, che capiamo la ‘scimmia’ poiché sappiamo come è fatto ‘l’uomo’. Propongo un’alternativa: ‘l’uomo’ è quel che è rimasto e risultato dalle ‘scimmie’ sopravvissute. Non è tanto la fisiologia della ‘scimmia’ che individuiamo, guardando ‘all’uomo’, quanto i tratti di questa che hanno vinto la lotta della vita. E l’hanno vinta magari per caso, per circostanze fortunate, per la fortuna di un giorno. E' chiaro che l’alfabetizzazione produce un evidente vantaggio cognitivo, come scrive[2], ma che da ciò derivi la nascita ‘dell’uomo’ (ovvero, della autonomia mentale e della libertà individuale come valore centrale), pur essendo collateralmente relazionato al vantaggio citato, deriva dall’inibizione delle alternative che in altri luoghi hanno prevalso. Non è solo nella linea genealogica Grecia-Roma-Rinascimento-Europa moderna che il ceppo indoeuropeo del linguaggio si è propagato.

Prendiamo l’impresa tecnico-scientifica. Nel libro di Andrea è presente una sintetica[3] caratterizzazione della logica scientifica come componente essenziale della “grande convergenza”. In essa la ‘tecnoscienza’ è interpretata come la mira ad una forma di dominio causale (e quindi tecnico) sui processi naturali. Desiderio che si afferma a partire dal XVI secolo e induce una sempre più pronunciata svolta quantitativa ed un vasto processo di ‘razionalizzazione’. Facendo uso della lettura epocale di Koyré e di un testo recente collettaneo[4], individua nell’analiticità, nella manipolazione causale, la matematizzazione, l’obiettivismo (presenti già in Galileo), che nel loro insieme invertono la visione del mondo, lo snodo decisivo di questa svolta. Di qui si può assumere, nel mentre procede un colossale processo storico di secolarizzazione, e quindi di trasferimento della funzione socio-integrativa e di potere della religione, che la “natura” sia dotata di “leggi” le quali non sono presenti ai sensi, ma necessitano di un linguaggio (matematico) per essere comprese. Questa mossa attiva un trasferimento di autorità del quale la ragione liberale è perfetta espressione. Ma il sorgere, o meglio l’affermarsi, proprio in quel secolo e torno di paesi, dell’impresa scientifica è interconnesso strettamente con l’affermazione di una interconnessione tra produzione, scambi commerciali in estensione e correlato sviluppo finanziario che vede il dinamismo di nuovi ceti e lo spostamento progressivo del centro dinamizzante del nascente capitalismo internazionale dal Mediterraneo al Nord Europa. Non è per caso che il primo sviluppo della tecnoscienza sia intensamente presente in Italia, mentre un paio di generazioni dopo si sposti in Inghilterra e Paesi Bassi[5]. Anche qui la ‘scimmia’ che vince fa ‘l’uomo’.

Quel che conta è, alla fine, che di ciò stiamo parlando. Non del fatto che l’individuo altri non lo possano pensare, che non sia possibile storia, filosofia, letteratura, etc… Ma, qui, in questo testo, ci chiediamo noicome lo pensiamo. Tanto basta.


La ragione liberale è dunque connessa in primo luogo a forme di obiettivismo naturalistico, le quali sono da valutare insieme all'ascesa della tecnica e dei processi di ipostasi del mezzo. Nella riflessione filosofica del 900, ad esempio, ha rivestito un ruolo importante questa interpretazione dello sviluppo storico nel quale trova un punto centrale la questione della tecnica o della tecnologia. Interpretata come una sorta di ‘fattore destinale’, una sorta di fatto storico che definisce le forme di sviluppo ancorandole alla ‘volontà di potenza’ della specie umana. Questa interpretazione di grande successo si ritrova da una parte nella “Dialettica dell'illuminismo” di Adorno e Horkheimer, ma soprattutto è rintracciabile nel lavoro di Martin Heidegger e degli autori ispirati a lui, come Herbert Marcuse, Gunter Anders ed Emanuele Severino. Naturalmente l'elenco si può allungare a dismisura, questo è quello proposto a titolo di esempio nel testo. Questa interpretazione di grande successo non viene costruita per caso. Correttamente Zhok ricorda che se si assume questa prospettiva il capitalismo e tutti i suoi processi degenerativi, di tipo sociale e culturale, diventano solo un ‘effetto collaterale’, tutto sommato marginale, di un processo più profondo e molto più lungo nel tempo e lo spazio di progressiva dominazione tecnologica. Questo processo, che ad essere completamente esteso parte con le prime schegge e lance neolitiche e dunque avvolge la specie come tale, sarebbe ricostruito con straordinario abuso di proiezione come assoggettamento della volontà di dominio da parte del soggetto. Con questa ermeneutica novecentesca ‘la tecnica’ viene posta al centro della vicenda storica. Ne consegue quello che era probabilmente uno degli obiettivi politici sin dall’avvio (questi pensieri, all’origine sedimentati nei circoli della ‘rivoluzione conservatrice’ tedeschi[6], neutralizzano frontalmente la prospettiva marxiana). L’economia, per essa l'economia politica, e la società stessa sono poste in posizioni dipendenti da accessorie. Quest’interpretazione conduce per sua necessaria dinamica a spiacevoli implicazioni fataliste che, dal punto di vista sostenuto in questo libro, hanno anche seri limiti di analisi. La tecnica sembra, infatti, l’incarnazione principale di un impulso umano dominante, nominato come “volontà di potenza”, rispetto al quale ogni valore ogni preferenza e inclinazione devono necessariamente venire meno. L'unico motore dell'uomo è quindi la volontà di potenza, ovvero l'acquisizione di una capacità di fare non subordinata a nessun fine che non sia ad essa immanente, da perseguire e non vincolata dall'esterno. Se si segue questa interpretazione la pulsione all'acquisizione del dominio sarebbe propria dell'uomo (dove in alcune versioni femministe ‘uomo’ significa ‘esemplare maschio della specie’), e si incarnerebbe necessariamente nel sistema della tecnoscienza moderna. Ovvero nella grande macchina la quale, a sua volta, farebbe scaturire come prodotto necessario le forme dell'economia capitalistica.

Ma questa lettura è ben lontana da essere ovvia e necessaria. In essa si assumono sin dall'origine le forme dell'uomo hobbesiano: aggressivo, assoggettante, acquisitivo. Una forma di uomo che non è certo sovrastorica.

Se non per il dominio egemonico del pensiero liberale, nel senso situato ed al contempo esteso difeso in questo libro, non si capirebbe per quale motivo tra le diverse ragioni, le diverse pulsioni, i diversi desideri e tra le forme di vincolo ed ordinamento presenti nell'uomo, tra tutte le spinte di tipo gregario affettivo riproduttivo e religioso, proprio la volontà di potenza debba assumere un profilo così dominante e assolutizzante. Solo perché lo ha ora?

In effetti questa visione, che corrisponde alla trasformazione del mondo in una collezione di mezzi neutrali e presenta il mondo stesso come una sommatoria di cose, è strettamente connessa al dominio della scienza, e questa al sistema sociale dominante. La scienza mira ad isolare un sistema di relazioni causali determinate e quantitative, selezionate per poter essere calcolate, stagliate sullo sfondo di un mondo dove vigono leggi inderogabili. Questa visione naturalistica e la traduzione ontologica di questo approccio metodologico cosiddetto scientifico è, naturalmente, di grande efficacia. Ma questa visione è anche insostenibile sul piano fenomenologico. Pone una gerarchia vera e propria di autorevolezza, al cui vertice mette ciò che è prodotto secondo i criteri di accreditamento propri delle scienze della natura, e via via più in basso tutte le altre forme di sapere.

Si tratta, in effetti, di non altro che un'altra espressione della “Ragione liberale”, e secondo la tesi di Zhok insieme a tutto il postmodernismo filosofico che, per certi versi, gli si oppone. La stretta associazione tra liberalismo, ovvero capitalismo, e la tecnoscienza è un'opinione condivisa dalla prospettiva cosiddetta postmoderna in filosofia, ma essa stessa è fondata ideologicamente già a partire da Hobbes per poter escludere la contendibilità razionale di valori. Per derazionalizzare sin dall'inizio la dimensione del senso e del valore, riducendole questa volta a mero sentire e ponendolo nell'ambito dell'interiorità privata. Da questo punto in poi nasceranno le opposizioni tra “ragione” e “sentimento” nel quale la ragione viene isolata dalla sensibilità e dall'emozione dalla preferenza e dal valore e si riduce a una forma di calcolo. Simmetricamente la dimensione assiologica residua è ridotta a qualcosa di razionale e spesso in questa mossa riposa un particolare stile orgogliosamente irrazionale.

L'intera linea oppositiva è però funzionale all'edificio della Ragione liberale per il come è stato esaminato. I soggetti individuali vivono la sfera del valore come inattingibile alle ragioni pubbliche e strettamente privata, e ciò produce una società che non può essere niente più che non somma di individui isolati. Come sostiene Zhok:


“fondamentale per lo sviluppo della ragione liberale è leggere il mondo come risolto nel gioco positivo tra obiettivismo naturalista e soggettivismo emotivista, tra durezza della ragione tecno scientifica e mollezza della interiorità sensibile. La ragione liberale non è identificabile con la ragione contro il sentimento, né con la durezza delle hard sciences di contro la mollezza dell'intimismo emotivista, ma proprio con questa opposizione complementare. Tale opposizione astratta, lungi dall'essere onnicomprensiva, delegittima dati fenomenologici primari: essa cancella la continuità tra la sfera del ragionamento e sfera senziente, così come quella tra valore e realtà, e come la continuità fondamentale tra dimensione individuale e dimensione intersoggettiva”[7].

 

La riflessione di matrice analitica si è sviluppata in area anglosassone mentre il postmodernismo filosofico essenzialmente in area francese. Esso ha avuto successo e si è sviluppato nella particolare atmosfera culturale susseguente al maggio ’68. Infatti, solo Michel Foucault aveva già sviluppato i tratti di fondo della sua riflessione a quella data, tutti i maggiori rappresentanti del cosiddetto postmodernismo filosofico nascono nel ‘68. Esso incide quindi in maniera decisiva sulla loro elaborazione e determina la loro ricezione e successo. Come continua l’autore, però, per valutare correttamente il retroterra di questo vasto fenomeno bisogna considerare la figura, già durante i primi anni 60, di Sartre che dava a questo atteggiamento un'impronta soggettivistica, storicistica ma politicamente impegnata. Rispetto alla posizione di Sartre il ‘68 francese determina una cesura, in primo luogo, nei confronti del Partito Comunista Francese (che si dimostrò incapace di cogliere ed orientare i fermenti innovativi presenti nel movimento studentesco), in secondo luogo a seguito del riflusso dello stesso processo di mobilitazione. Ne seguì la disillusione della possibilità stessa di superare il capitalismo attraverso le chiavi interpretative fornite dal marxismo.

Queste condizioni generali storiche forniscono le motivazioni ed il movente per una teorizzazione che nonostante abbia molte caratteristiche diverse conserva un’omogeneità di base. Osservando il lavoro di Foucault, Deleuze, Lyotard, Derrida e Baudrillard il testo di Zhok ricostruisce come il soggettivismo e lo storicismo, che caratterizzavano la posizione sartriana, vennero destrutturati e abbandonati. Ciò che si ottenne, alla fine, fu una profonda destrutturazione e dissoluzione dello stesso soggetto (in primis del “soggetto rivoluzionario”) e una fondamentale sfiducia nel senso storico. L'antiscientismo, portato della ‘critica della tecnica’, nella tradizione avviata da questi studiosi si traduce quindi direttamente nel rigetto completo del razionalismo. Quello che viene meno è il tentativo stesso di descrivere lo sviluppo di ‘forme razionali della storia’ e di sostenere le proprie tesi producendo specifiche pretese di verità, sottoponendole alla discussione. Vengono derubricati tutti i concetti chiave: ‘storia’, ‘soggettività’, ‘verità’, ‘identità’, ‘umanità’, ‘stato’, ‘società’, ‘valore’ e da ultimo quello stesso che li radicava, ‘autenticità’. La dimensione soggettiva, che ovviamente rimane operativa, è reinterpretata come ‘soggettività negativa’, cioè come il rifiuto dell'oggettività, rifiuto dei suoi criteri, rifiuto della stabilità e appello alla relatività radicale. Si tratta, a tutta evidenza, di un segno dei tempi[8].

La forma più chiara di questa postura intellettuale è nell'opera di un filosofo abbastanza atipico, che è visto da Zhok come filologicamente leggero ma di grandissima potenza narrativa. Foucault in effetti ricerca nel suo lavoro ragioni profonde negli eventi storici, poste per così dire dietro gli eventi; ragioni irriducibili alle accidentalità. Sorge però una particolare e inaggirabile contraddizione interna, inerente al concetto di ‘verità’ e di ‘finalità immanente’, entrambi svalutati esplicitamente dalle sue opere teoriche ma utilizzati necessariamente nelle narrazioni storiche. Che, altrimenti, andrebbero interpretate come letteratura ed esercizi di stile (molto ben riusciti). È piuttosto curioso che sia possibile produrre, infatti, genealogie storiche con pretese di verità se si dichiara non esistere alcuna finalità immanente nella storia, o qualunque unità di coscienza che la possa individuare, a partire dall'idea stessa di umanità. In sostanza ogni giudizio, e quindi gli stessi giudizi espressi implicitamente ed esplicitamente dall'autore, non potrebbe che rappresentarsi come semplice esito di rapporti di potere. L'esercizio di potere esso stesso non sarebbe buono o cattivo, perché non c'è alcuna verità morale ed alcun senso umano cui questo giudizio possa appellarsi. Né esiste una collettività che lo fondi, perché questa, a sua volta, è solo un prodotto dell’esercizio narrativo stesso. Un effetto del suo “effetto di verità”. Ogni esercizio di potere, dunque, ogni categorizzazione che vi prelude sono ingiustificabili, legittimati in sostanza solo da ciò che eventualmente emerge. La propensione di fondo motivante l'azione di Foucault, persino sul piano biografico, è quindi spinta abbastanza naturalmente verso la rilegittimazione o l'emancipazione di tutte le forme di soggettività tradizionalmente emarginate, come il folle carcerato il pervertito. Se nessun potere si legittima per la maggiore razionalità, l’aderenza a valori, un qualche fondamento sociale dato e preesistente, allora nello scontro delle ‘volontà di potenza’, tutto sommato, non resta che dire che i marginali, i pochi e gli sconfitti hanno un vantaggio di legittimazione. O, almeno, lo possono pretendere più di altri. Al contempo non c'è in Foucault la possibilità di richiamarsi ad alcuna soggettività autentica, e questo sostanzialmente fornisce alle rivendicazioni solo il bersaglio negativo residuale di avversare il potere o le stesse categorizzazioni, ma non lascia nessuna aspirazione positiva.

Questo sforzo è, in altre parole, interamente volto alla distruzione ed ha, per Zhok, un carattere autenticamente critico, ma viene ulteriormente potenziato e portato a livelli ancora più radicali dai successori, a partire da Gilles Deleuze. Deleuze è contemporaneo di Foucault, ma gli sopravvive a lungo. Tuttavia, la sua produzione è tutta successiva al ‘68 ed è sviluppata in collaborazione con Felix Guattari. Per Deleuze l'ontologia non deve più occuparsi d'identità, ma solo di differenze, non deve più puntare a scoprire, ma a inventare. La filosofia è quindi l'arte di formare e di inventare, o di fabbricare, concetti. Per lui “la filosofia non consiste nel sapere, non c'è una verità che la ispiri; Ci sono piuttosto delle categorie come quella di interessante, di notevole o di importante, che decidono della riuscita dello scacco, non prima però di aver costruito”. Questa base che fondamentalmente sembra utile a un esercizio di finzione letteraria, più che per un'indagine filosofica, lo pone al tipo opposto dello stile analitico, evitando anche il confronto argomentativo. Le tesi di Deleuze colpiscono l'unitarietà del soggetto umano, la persona che viene disassemblata in gesti, parole, relazioni. Si determina una sorta di ‘filosofia della differenza’ che predilige il divenire all'essere, il suggerire al dire, la fluidità alla stasi, il nomadismo alla stanzialità.

Stranamente questa impostazione radicalmente fluidificante e piuttosto evidentemente connessa con lo spirito del capitalismo ad essa coeva, per non parlare della lotta ideologica ed imperialista tra i sistemi mondo, è immaginata dall'autore come antiliberale. L'antiliberalismo, immaginato e preteso da Deleuze, parte dall'idea per cui il liberalismo sarebbe in effetti una teoria politica che assume come fondamento l'esistenza di individui razionali, con una propria agenda di interessi e rappresentati da un governo. Secondo questa interpretazione la mossa di minare, danneggiare o distruggere la soggettività unitaria degli individui, la loro razionalità e poi tutte le realtà strutturali distrugge il liberalismo stesso. Ma in realtà, secondo la linea la ricostruzione genealogica prodotta in questo testo, Deleuze non fa con ciò che aderire a uno dei due poli dell'oscillazione liberale. Non fa altro che occupare, cioè, la casella opposta e complementare al razionalismo economico, interpretando le pulsioni anarcoidi ed individualiste di cui si nutre costantemente il sistema di mercato. In concreto, come dice Zhok “il principale contributo delle suggestioni deleuziane sul piano politico è quello di disarmare qualunque opposizione reale allo status quo capitalista, consegnando ogni ‘protesta’ ad una dimensione di ‘trasgressività’ privata, perfettamente compatibile con i più ordinari funzionamenti del capitale”[9].

 

Invece Lyotard pone sotto attacco quelle che chiama “le metanarrazioni”, ovvero tutti i tentativi di giustificazione e di fondazione del ‘sapere’, del ‘vero’ del ‘giusto’ (la prima “metanarrazione” è il marxismo, ovviamente). Concepisce la postmodernità come “guerra alla totalità” (ad Hegel). Anche qui ciò implica un appello alle ‘differenze’. Non esiste per Lyotard nessun modello autentico o più autentico di società da perseguire, compreso il modello che miri semplicemente alla autodeterminazione democratica. Quello che resta al centro della dimensione politica è lo scontro tra “generi di discorso” o tra “giochi linguistici” reciprocamente incompatibili. La nozione è ripresa da Wittgenstein, ma mutilandola del riferimento alle “forme di vita”, riconducendoli quindi a formulazioni verbali individuali. Se non c’è la società, e neppure il soggetto, restano forme di sfere autoreferenziali autistiche, senza vie di uscita razionali. Resta la minaccia del dissidio, dove per dissidio si intende la prevaricazione dell'uno sull'altro, o l’espressione puramente artistica, la provocazione.

Infine, Derrida che prende le mosse da uno studio della fenomenologia husserliana, ma a partire dal ‘67 prende una particolare strada che lo identificherà come padre del “decostruzionismo”. Al centro della sua riflessione quella forma particolare di segno che è il segno scritto. Partendo da una prospettiva fenomenologica dove “tutto ciò che si manifesta è ciò che è in quanto ha per noi un significato”, ogni manifestazione presente diventa per lui portatrice del suo significato in quanto rimando al non presente. Cioè in quanto rimando a un altro da sé, ad una traccia. Ma questa traccia viene concepita come una sorta di scrittura, che chiama archi- scrittura. Il richiamo alla scrittura essenziale, in quanto segno, rinvia alla negazione frontale di ciò che il più fondamentale degli aspetti della fenomenologia husserliana cioè l'identificazione di diversi livelli di Fondazione. Se si fa venir meno la gerarchia tra la percezione, il ricordo, la fantasia, la gerarchia dei segni, quella dei significati, quella delle evidenze, non c'è più alcun modo di distinguere un ‘significato’ da una ‘verità’. Una volta impostato il funzionamento dei significati in questo modo resta un panorama di un sistema di segni in perenne infinito rinvio, gli uni agli altri, ed ogni cosa diventa leggibile come un testo. Un testo che, però, rinvia solo ad altri testi. L'analisi filosofica diventa così un’indagine intra testuale senza meta e senza finalità. Secondo il punto di vista di Zhok l'opera di Derrida dopo il ‘67 non è interpretabile facilmente come filosofica, se si pensa che la filosofia ha qualche necessario riferimento alla conoscenza (e che la conoscenza rinvia necessariamente a qualche forma di verità). Si tratta, piuttosto, di un’attività intellettuale brillante ed affascinante, configurata come una serie di esercizi che rimangono all'interno del gioco semantico dell'analisi testuale, nel quale diversi concetti estratti dai testi vengono esposti nei loro contrasti e ne viene mostrata la natura relazionale. Un'opera acuta, utile per riflettere su assonanze, sulle associazioni, talvolta sull’origine tipologiche o con fini definitori, ma del tutto inadeguata “a trarre la benché minima conclusione di valore operativo”[10]. A volte Derrida si occupa di autori di peso politico come Marx[11] o di tematiche politiche come la democrazia e la sovranità, ma senza argomentazioni capaci di indirizzare un agente nel contesto di scelte concrete politiche o etiche. In questo senso l'operazione complessiva appare nichilistica.

 

Naturalmente per Zhok quello che conta non è tanto tentare di confutare autori che, per loro stessa natura e per il modo in cui sono costruiti i loro testi, si sottraggono alla possibilità di essere confutati, in quanto non mettono a disposizione delle tesi e non individuano specifiche pretese di verità argomentata, quanto comprenderne l'impatto etico politico in relazione agli sviluppi della “ragione liberale”. Questi autori sono sostanzialmente accettabili o rigettabili in blocco. A seconda se si condivide il loro spirito antiautoritario e la vocazione ribelle, tendenzialmente aristocratica.

In definitiva secondo il punto di vista di questo testo la riflessione del postmodernismo francese si colloca, ma del tutto inconsapevolmente, all'interno di uno dei due poli definitori della “Ragione liberale”, perché mentre rigetta l'obiettivismo e il razionalismo scientista, che ne è una forma, ricade nel polo complementare del soggettivismo antirazionalistico. Pur se gli autori postmoderni si concepiscono come politici e come militanti anticapitalistici (e sono impegnati nel riconoscimento dell’inadeguatezza del Partito Comunista Francese) giungono alla diagnosi di obsolescenza della intera lezione marxiana, finendo per leggere il capitalismo come un blocco istituzionale complessivo. Identificano la società borghese, lo Stato, i partiti e i sindacati come un'unica struttura unitaria da contestare nel suo insieme. Ogni ricerca dell'efficienza, della razionalità mezzi fini, della verità, sono percepiti come parte di un ordinamento oppressivo da contestare. Le stesse istanze di insofferenza individuale, espresse dalla loro provenienza di classe e dalla tensione di forze borghesi che si sentono escluse dall'accesso al loro ruolo sono trasfigurate come potenza emancipativa. L'intero spettro delle loro aspettative teoriche e politiche è spostato in direzione di un ribellismo soggettivista, che crede di fare qualcosa di politicamente progressivo nell'assumere atteggiamenti relativistici ed antirazionalisti. Questo carattere si traduce in pratica in una fuga da tutte le pretese di spiegazioni, da tutte le teorie di insieme da tutte quelle che chiamano le “grandi narrazioni”. Si traduce nel richiamo al pluralismo politico ed epistemico, che però diventa immediatamente soggettivismo individualista, impermeabile alle esigenze di ogni consenso razionale, ed impermeabile a ogni e qualsiasi teoria generale.

Questa tendenza centrifuga è, a ben vedere, una perfetta incarnazione dell'individualismo liberale classico ed è perfettamente metabolizzabile, e molto facilmente dal clima neoliberale incipiente nel quale si svolge la scena. Ciò anche a causa del capitale sociale di cui dispone la maggior parte degli autori, per provenienza di classe e dinamiche di mercato. Questo rifiuto antiautoritario, cioè il rifiuto di ogni pretesa di verità strutturata, di ogni pretesa universale, si ripercuote sul piano politico, anche al di là delle intenzioni, in un'operazione che disarma completamente la critica teorica.E lascia come solo spazio i meccanismi auto riproducenti del mercato. In sostanza è un'operazione che si pensa come anti-oppressiva, che si immagina come anticapitalistica, e finisce per infiacchire ogni possibilità di contestazione razionale e, dunque, finisce per favorire il potere inerziale dello status quo. Questa parabola siamo in grado di vederla davanti ai nostri occhi proprio ora che essa si è conclusa.

 

Tutte le analisi apparentemente radicali rivolte ad opzioni marginali, alla ricerca di differenze, al gioco delle frasi, alla decostruzione dei significati, si configurano, alla fine, come un'operazione in grande stile di sterilizzazione e privatizzazione del pensiero. Non consentono di trarre alcuna conclusione fondata che sia intersoggettivamente condivisa sul mondo reale e ostacolano ogni accordo rivolta a favorire una qualsiasi iniziativa collettiva. In sostanza si tratta “di una grande operazione di chiusura nel privato, travestita da razionalità filosofica[12] .

Apparentemente emerge, soprattutto con lo sguardo dell’oggi, un paradosso: “nell'intento di liberare l'individuo dall'oppressione del potere, delle istituzioni, dello Stato, della società, del capitale, del partito, del razionalismo e della tecnoscienza, questa tendenza culturale ha portato a una completa soggezione e dissoluzione dell'individuo stesso che pensava di liberare”. Nel momento in cui non si può più parlare infatti di autore, di agente razionale, e non si può più parlare neppure di umanità o di natura umana, allora viene a cadere e si dissolve la possibilità stessa di porre la questione circa forme di vita autentiche o inautentiche. Ovvero viene a cadere la possibilità di definire qualcosa come sfruttamento, alienazione, perché non esiste autenticità o alienazione se non il rapporto ad un’essenza umana. In linea di principio la rivendicazione della grande società multinazionale, o del suo management, e quella dei suoi lavoratori precari, sovrasfruttati e sottopagati (purché non parte di quale minoranza riconoscibile e vittimizzata) sono da considerare del tutto equivalenti. Si tratta di “narrazioni” in fondate, quella dell’efficienza comparata verso quella dello sfruttamento. Non esiste, e non può esistere, una teoria della natura umana, una rivendicazione di forme di vita appropriate, sulla quale fare leva per denunciare razionalmente le condizioni imposte.

Se si dissolve il soggetto agente con la sua ragione, la sua natura, allora l'intera dimensione storica scompare dal novero dei concetti rilevanti. Non ci sono più criteri per concepire entità storiche sovraindividuali (e quindi gli Stati, i popoli, le classi, l'umanità tutta) che siano mossi da progetti comuni o da valori comuni.

 

Il paradosso è, quindi, che il postmodernismo appare una teorizzazione antiautoritaria e libertaria ma, nel farlo, apre alla svolta neoliberale la quale andava nella stessa direzione (contro lo Stato e i corpi intermedi) e, con essa, anche alle sue compressioni della libertà che oggi vediamo ovunque intorno a noi.

 

Nella Terza Parte, e ultima, vedremo come questa linea genealogica di lunghissimo periodo si traduce, anche sulla scorta del clima postmoderno, in applicazioni politiche, ovvero in un particolarissimo, ed anche qui paradossale, forma di ‘politico impolitico’. Uno stile che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).



[1] - Qui potrebbero essere rintracciati facilmente alcuni controesempi, ovviamente la filosofia greca ha la sua specificità, ma anche le sue relazioni e debiti con le forme di pensiero antecedenti in regioni nelle quali la scrittura era completamente diversa, come l’Egitto, per dirne uno. O l’oriente medio, nel quale civiltà di grande complessità (e altamente stimate) antecedono di millenni il ‘miracolo greco’. Ma potrebbe essere anche messo in questione la specificità del racconto storico, come proprio dell’occidente. Un esempio di questa diversa interpretazione in Sanjay Subramanyam, “Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo (secoli XVI- XVIII)”, Carocci, 2014, ma potrebbe anche essere ricordata la protesta di Amartya Sen, “L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana”, Oscar Mondadori, 2005. O, infine, il lavoro di Francois Jullien sulla filosofia orientale (es. “Trattato sull’efficacia”, Einaudi 1998, ed. or. 1996). Certo, anche il sanscrito in effetti appartiene alle lingue indoeuropee e il mondo arabo, direttamente e dopo per suo tramite quello delle grandi terre di mezzo dei due fiumi, sono talmente intrecciati con la nostra linea evolutiva da poter assumere che il termine posto nel libro sia, in fondo, solo una espressione semplificante. Ma l’antico Egitto, e le lingue dell’estremo oriente, il cinese in specie, non sono affatto del nostro ceppo. Infatti, sono esattamente prese per contrasto (sinteticamente, la tesi è che lingue che si fondano su ideogrammi invece che sulla scrittura fonetica nella quale con pochissimi segni e regole si può creare infiniti nuovi concetti, parole, frasi e testi. Dunque, c’è anche un altro quadro, un’altra filiazione.

[2] - “La mente alfabetizzata si diffonde in quanto consente al soggetto un accesso potenziato all’esperienza, accesso che si converte in una potenziale superiorità cognitiva”. Zhok, p.38

[3] - Alexander Koyré, “Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione”, Einaudi 2000.

[4] - G.Gorham, B.Hill, E.Slowik, C.K.Waters (a cura di), “The language of nature”, London 2016.

[5] - L’analisi dell’impresa scientifica tra 1600 e 1700, prima centrata nel mediterraneo italiano e francese e poi spostata, quale baricentro, al nord, in particolare in Inghilterra, mostra i suoi stretti legami interni con lo sviluppo economico (cosa che non prefigura la direzione causale, ovviamente). Ovvero con lo sviluppo delle classi e degli interessi dell’emergente borghesia commerciale e poi proto-industriale. Laboratori, riviste scientifiche, accademie, sono finanziate da potenti forze private (in Italia) o pubbliche (in Francia). In altre parole, la ricerca scientifica non è affatto, come vorrebbe la retorica dominante, astratta e disinteressata ricerca della “verità”, non è una teologia (anche se in parte lo è, con gli effetti di legittimazione e potere che ne conseguono). La ricerca scientifica è sforzo organizzato di risolvere problemi emergenti e concreti. Nel 1400 e 1500 era stata connessa, in una fase di espansione, con i consumi delle élite: l’astronomia aveva un legame ben rintracciabile con l’arte della astrologia (che durerà fino a Newton); la botanica si connetteva con la farmacologia che offriva i suoi servigi esclusivamente alle classi dominanti, le uniche che potevano pagarne i rimedi; la matematica si sviluppa per gli interessi della contabilità, connessa con l’accumulazione del denaro in mano a banchieri e commerci di lunga percorrenza, in una fase di monetizzazione e finanziarizzazione; a partire dalla “Nova scienza” di Tartaglia (1537) si sviluppa la balistica e poi la cantieristica navale e i connessi problemi di fisica applicata in cui si impegna Galilei. Dalla seconda metà del seicento la scienza mostra la sua efficacia concreta in campi di interesse degli Stati nazione in via di consolidamento e della borghesia commerciale, impegnata ad estendere le rotte e porre le premesse per il dominio coloniale del mondo. Navigazione, costruzione di navi, artiglieria; orologeria, e di qui meccanica, studi sulla velocità della luce per determinare la longitudine in mare aperto, navigazione a vela e calcolo vettoriale, fluidodinamica per rimodellare gli scafi, le analisi di Eulero sulla meccanica dei corpi rigidi per risolvere il problema del beccheggio delle navi, cannocchiale e telescopio, la “aritmetica politica” (ovvero la statistica matematica), sviluppata per le crescenti esigenze di controllo degli Stati e la cartografia… Si veda, ad esempio, Lucio Russo, E. Santoni, “Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia”, Feltrinelli 2010.

[6] - Indubbiamente un così vasto movimento di pensiero ha provenienze molteplici e profondamente radicate, si può fare a lungo l’esercizio di trovarne diramazioni nazionali (es. francesi) o antecedenti. Gli stessi padri della sociologia lo sono in certo senso (in primis Sombart e Max Weber). Alcune di queste relazioni possono essere rintracciate in un contesto di risposta e reazione alla sfida marxiana, e del movimento che ne scaturisce. Anzi, alla doppia sfida del liberalismo politico e del marxismo. Quindi alla concezione lineare della storia, alla critica della Zivilisation, del progresso ed all’americanismo in alcuni esponenti. Gli scritti di Spengler, ad esempio, sulla tecnica ed ovviamente Carl Schmitt ed Ernst Junger.

[7] - Zhok, p.236.

[8] - Il particolare clima nel quale avvengono queste avventure di pensiero è posto al termine di un ventennio di espansione economica e di trasformazione della società uscita dalla seconda guerra. Un ventennio nel quale l’Europa recupera una posizione economica salda, sviluppando enormemente la propria industria che comincia a competere con quella americana, ma, al contempo, subendo la crescita dei settori intermedi che spingono per avere una risposta all’altezza delle proprie ambizioni. L’influenza delle lotte anticoloniali, da una parte, e delle rivendicazioni delle minoranze di colore nelle periferie (non solo americane), dall’altra, nel contesto di una forte lotta redistributiva, ma anche in qualche frangia radicalizzata, del comunismo cubano e delle repressioni sovietiche nell’Est Europeo, creano un particolare clima antiautoritario che si dirige contro ogni espressione di potere. L’insieme delle ambizioni di ceti intermedi scolarizzati (si è anche in un quindicennio di enorme espansione dell’offerta di istruzione superiore) che premono per non ripetere la ‘noiosa’ e lenta esperienza dei padri e madri, delle lotte operaie, delle suggestioni internazionali in un decennio esaltante, si fonde nel rendere dominante, e intuitivamente ‘giusto’, ogni pensiero che si presenti come ‘nuovo e radicale’ e voglia farla finita con le grigie burocrazie, siano esse dell’Est come dell’Ovest.

[9] - Zhok, p. 242

[10] - Zhok, p. 246

[11] - Jacques Derrida, “Spettri di Marx”, Raffaello Cortina Editore, 1994 (ed. or. 1993).

[12] - Zhok, p. 250

@alessandvisalli
31 Mar 06:47

Euro-integrazione e destra tedesca: il ruolo della Corte Costituzionale di Karlsruhe

by Riccardo Achilli

 


Dunque, quanto si paventava da tempo si è realmente avverato: il processo legislativo di approvazione del Next Generation Fund si è arrestato, proprio nel cuore dell’’impero, ovvero in quella Germania che ha di fatto conformato le regole di funzionamento della Bce e dei Trattati. Si è fermato perché la Corte Costituzionale di Karlsruhe ha ordinato al Presidente della Repubblica Federale di non ratificare la legge di approvazione del Recovery Fund, votata a larga maggioranza in Parlamento, nelle more della discussione di un ricorso presentato da Bernd Lucke, economista accademico ed ex membro di Afd (la destra sovranista tedesca).

Lucke contesta che il meccanismo del Recovery Fund produca di fatto un trasferimento di risorse finanziarie dagli Stati più virtuosi (come la Germania) a quelli più indebitati, come il nostro, e che questo trasferimento sia incostituzionale in base alla Legge Fondamentale tedesca. Da un punto di vista strettamente costituzionale, in effetti, Lucke potrebbe avere alcune ragioni da vendere: il meccanismo costituzionale tedesco prevede un limite inderogabile all’indebitamento (il c.d. “debt brake”, che impedisce al Governo federale di superare un disavanzo strutturale dello 0,35% del Pil) ed un limite a risorse prese a prestito, che non possono superare l’ammontare degli investimenti (ovviamente quelli tedeschi, non quelli di altri Paesi).

Naturalmente, però, la questione è strettamente politica: la Corte Costituzionale tedesca ha già dimostrato, con la sentenza del maggio scorso sul vecchio meccanismo di quantitative easing, di pendere verso gli interessi della destra euroscettica del Paese. Questa destra, ben rappresentata nella Confindustria germanica, diffusa, ben oltre Afd, anche fra i liberali e gli accademici (con esponenti come Schaeuble, che con la sua proposta di rating del debito sovrano avrebbe fatto esplodere l’Eurozona in un secondo, Werner Sinn e Lars Feld, entrambi consiglieri economici della Merkel) in fondo ritiene inutile e dannoso, per la Germania, perseguire ulteriori cessioni di sovranità in nome di una costruzione europea sempre meno strategica. L’export tedesco verso gli USA, la Cina e la Gran Bretagna supera di gran lunga quello diretto verso i Paesi dell’area euro, ed in particolare l’export verso i Paesi euromediterranei è diventato trascurabile: l’Italia è solo al settimo posto nella graduatoria delle vendite estere, la Spagna al dodicesimo. In questi termini, dal punto di vista degli industriali e delle loro cerchie di economisti, assumere rischi finanziari crescenti, che possono mettere in discussione il modello competitivo deflazionistico tipico del Paese, è più pericoloso che lasciare che i Paesi mediterranei escano dall’euro, magari con procedure di default pilotato del loro debito pubblico, per minimizzare gli impatti sul sistema finanziario globale. Sinn, in una intervista di quest’estate, ha esplicitamente proposto che l’Italia venisse avviata verso un programma di ristrutturazione del suo debito sotto la regia del Fmi e del club di Parigi.

D’altro canto, la battaglia politica interna alla stessa Germania è oramai al calor bianco. A pochi mesi dal voto politico, i sondaggi sembrano propendere verso la fine del dominio della Cdu/Csu con i suoi alleati liberali, che aveva irretito i socialdemocratici in una gabbia di politiche neoliberiste. Si profila, infatti, la vittoria di una coalizione rosso-verde, composta dai socialdemocratici, guidati dall’attuale Ministro delle Finanze Scholz, insieme ai Verdi. Il programma elettorale proposto da Scholz è molto socialdemocratico, ed inevitabilmente, se venisse messo in atto, scuoterebbe alla radice il modello ordoliberista che la Germania ha voluto imporre a tutti i Paesi europei. Aprirebbe spazi per fare politiche di spesa anche in altri Stati membri. Ridurrebbe i margini di manovra dei falchi dell’austerità, anche in modo involontario, se vogliamo (Scholz non ha infatti mai deviato dalla posizione classica tedesca che vuole il ritorno del Patto di Stabilità dal 2022, ma ovviamente se facesse politiche di spesa dentro il suo Paese, avrebbe ben poca autorità per impedire agli altri di imitarlo).

Cosa succederà, dunque? La Corte Costituzionale tedesca sposa sicuramente posizioni ostili al Recovery Fund e fondamentalmente nazionaliste come quelle della componente euroscettica della destra tedesca. Difficilmente potrà spingersi fino a bloccare completamente il Next Generation Fund, perché considerazioni istituzionali (evitare un conflitto esplicito con il Parlamento che tale fondo ha appena approvato a larghissima maggioranza) e politiche (un recente sondaggio evidenzia che più della metà dei tedeschi è favorevole al Recovery Fund ed a una maggiore solidarietà europea) andranno inevitabilmente a pesare. Però è anche chiaro che i giudici costituzionali di Karlsruhe non potranno smentire la loro linea oramai consolidata e cedere su tutto il fronte. Intanto ci vorranno mesi prima che la sentenza sia emessa, e ciò comporterà inevitabili ritardi nell’erogazione dei fondi, riducendo ulteriormente l’impatto macroeconomico del Recovery Fund, già eccessivamente diluito. E poi è molto probabile che verrà presa di mira la parte di contributi a fondo perduto del Recovery Fund, che configurano nel modo più esplicito un trasferimento diretto di risorse dalla Germania ai Paesi euromediterranei, su cui più facilmente possono attecchire le osservazioni di anticostituzionalità.

Nell’insieme, tutto ciò non potrà che indebolire chi chiede maggiore integrazione europea nel nome della solidarietà e della condivisione dei rischi, superando le regole obsolete del Patto di stabilità e chi, sul fronte interno tedesco, vorrebbe cambiare la direzione delle politiche economiche e sociali, iniziando dall’abolizione degli odiosi provvedimenti Hartz. Draghi, che ha antenne molto attente, ha subito captato l’aria che tirava e forse il suo ultimo discorso parlamentare, per certi versi “sorprendente”, in cui rivaluta il ruolo degli Stati-nazione nei confronti del mercato comune europeo, è una sfida diretta alla destra euroscettica tedesca.

Chi vivrà, vedrà.

 

25 Nov 17:50

Comunisti… of Course!

by Redazione Contropiano

Conversazione con Mauro Casadio, della Rete dei Comunisti Nelle prossime settimane sarà pronto il secondo volume de “Una storia anomala. Dall’Organizzazione Proletaria Romana alla Rete dei Comunisti“. Il volume affronterà un arco temporale collocato dalla fine degli anni Settanta fino ai primi anni Duemila. Un decennio e più zeppo di […]

L'articolo Comunisti… of Course! su Contropiano.

02 Nov 12:48

Gramsci a Wuhan*

by giorgio

di Valerio Romitelli

 

 

L’epoca d’oro della democrazia all’americana, ovvero neoliberale, è decollata col crollo del muro di Berlino e ha cominciato a declinare da quando Cina e Russia sono ridiventati protagonisti della scena mondiale. Se è vero che l’epoca in corso è caratterizzata dall’emergere del modo sovranista e populista di pensare e sperimentare la politica[1], ciò è possibile anche per il ritorno alla ribalta di questi due paesi ex comunisti, il primo dei quali restato tale almeno ufficialmente.

Anche le elezioni di Trump, così come molte sue scelte, sarebbero restate impensabili nel mondo precedente, quello nel quale gli Stati Uniti godevano di una superpotenza illimitata. Parecchi fatti storici cruciali attestano l’esaurirsi di questa supremazia globale di Washington. Tra di essi l’andamento della guerra in Siria, nel quale la distruzione sistematica del paese adottata per la Libia di Gheddafi è stata bloccata dall’intervento russo. Ma anche nell’emergenza pandemica, mentre gli Stati Uniti hanno dimostrato inefficienze disastrose, la Cina, nonostante tutte le calunnie occidentali, è apparsa capace di mettere in opera la soluzione di distanziamento e controllo della popolazione che a partire da Wuhan è diventata il modello promosso dall’Organizzazione mondiale della sanità e seguito in ogni angolo del globo. Quello che è stato l’«Impero di mezzo», già tre secoli fa esempio del mercato prediletto dallo stesso Smith[2], sembra oggi tornare a primeggiare non più solo in fatto di commercio e produzione.

 

Stato e corpi collettivi

Per arrivare subito al cuore del primo punto occorre sbarazzarsi del maggiore pregiudizio che su simili temi viene diffuso dalla propaganda in uso in paesi vassalli degli Stati Uniti come il nostro. Si tratta del pregiudizio secondo il quale la differenza fondamentale tra «noi» e i cinesi o i russi starebbe nel fatto che «noi» viviamo più o meno liberi in democrazia, mentre «loro» la libertà non sanno neanche cos’è perché soggiacciono a regimi totalitari o autoritari. Per capire che questo non è altro che un pregiudizio non occorre alcun particolare ragionamento. Basta riuscire a emanciparsi dal misero schematismo secondo il quale ogni vicenda politica si ridurrebbe ovunque ai rapporti contrastati che vedrebbero schierati, da un lato, un regime statale più compatibile con la natura umana, quello democratico, dall’altro, i regimi statali innaturali e retrogradi.

Ricordo che la conseguenza peggiore di questo schematismo consiste nel distogliere l’attenzione da quelle che sono le forze più decisive delle dinamiche politiche. Sarebbe a dire quei corpi collettivi che in quanto organizzazioni almeno in parte immerse nel sociale e quindi estranee alle istituzioni statali, ne condizionano la loro stessa esistenza. Solo assumendo una simile angolatura ci si può rendere conto di una delle più importanti differenze tra come si vive prevalentemente nelle società occidentali o filoccidentali e come si vive nelle società più a oriente, come Russia e Cina. Laddove come «da noi» a occupare la scena politica sono infatti per lo più i partiti «leggeri», ovvero «mediatici», e i governi traballanti che ne derivano, non sono certo loro a decidere di quel che accade nei rispettivi paesi. I protagonisti della dimensione collettiva, ivi comprese le istituzioni pubbliche, in tali casi sono piuttosto oligarchie mediatiche e finanziarie, forze militari, servizi segreti, lobby più o meno criminali[3] e così via. Tutte queste componenti non sono certo estranee né alla Cina né alla Russia, ma lì sono accompagnate da un’altra entità; un’entità collettiva che, per quanto sia essa stessa corrotta e influenzata da fattori esogeni, ha comunque una consistenza organizzativa a se stante: i partiti vecchio stile, ossia di massa, radicati nel territorio. Partiti che in un modo o nell’altro ancora oggi in Cina e in altri paesi come la Corea del Nord sopratutto, e in modo più contraddittorio in Russia, si pongono in continuità con quelli che nei «trent’anni gloriosi» del secondo dopoguerra hanno fatto la storia della guerra fredda non solo a Est, ma anche negli Stati Uniti e all’interno della sfera d’influenza americana[4].

Certo si può obiettare che in Russia, col disfacimento dell’Urss, anche il Partito comunista si è decomposto, riducendosi a poco più che a una setta e lasciando crescere attorno a sé una miriade di partiti più o meno «leggeri», ma resta il fatto che la duratura leadership dell’ex comunista e agente segreto Putin non sarebbe neanche immaginabile se dietro di lui non si fossero riprodotte le vestigia di un apparato partitico d’altri tempi. In Cina invece la continuità onnipresente del Partito – almeno formalmente sempre quello della «lunga marcia» e della liberazione nazionale – è ben più evidente.

Difficilmente però l’esistenza di questo tipo di partito, da «noi» per lo più scomparso – sia pur con qualche assai relativa eccezione, come la Cdu della Merkel – viene adeguatamente considerato all’interno della letteratura d’ispirazione occidentale che tratta dei grandi successi riscossi dalla Cina negli ultimi anni. Tanto gli apprezzamenti quanto le critiche nei suoi confronti la riguardano sopratutto come Stato e come economia. Le più apprezzate sono solitamente le iniziative pubbliche in campo imprenditoriale, in favore della formazione, della ricerca, della meritocrazia, mentre più criticati sono sul piano interno il controllo sociale e dell’informazione e soprattutto le discriminazioni nei confronti delle minoranze[5] . Il tutto condito spesso e volentieri da residui pregiudizi più o meno razzisti sul «pericolo giallo» che il governo mondiale declinante degli Stati Uniti rinfocola volentieri attorno al suo nuovo e temibile rivale.

Se di rado il Pcc è fatto oggetto di analisi e giudizi specifici da parte dei commentatori occidentali o filoccidentali, ciò non accade certo per la sua scarsa influenza reale. Niente in effetti si decide a Pechino e dintorni che non passi per il vaglio di questo tipo di corpo collettivo che da noi è considerato un’anticaglia da condannare e dimenticare. Rivalutarne l’enorme peso politico attuale è evidentemente sforzo troppo grande per l’opinione dominante «da noi». Compiere questo sforzo significherebbe infatti fare i conti con tutta una serie di resistenze così inveterate da esser divenute coatte, praticamente inconsce. Anzitutto, la supposizione che il pluralismo dei regimi democratici sarebbe un valore intangibile, anche quando a difenderlo sono rimasti solo quei partiti «leggeri», facili prede di ogni influenza mediatica, finanziaria, militare o criminale. Ma a frenare la «nostra» curiosità per il Pcc c’è anche un’altra ragione. Che se lo si prendesse sul serio occorrerebbe ripensare tutto il complicato e sempre aggiornato bagaglio dottrinario di questo mastodontico, strapotente, ma anche duttile apparato burocratico: un bagaglio dottrinario che non rinunciando a riferimenti includenti finanche marxismo-leninismo e maoismo, oltre al confucianesimo, lo rende incompatibile con quella tradizione giuridica che continua a modellare ogni Stato capitalistico[6].

Alcuni grandi studiosi come Arrighi o Losurdo[7]  hanno continuato a credere fino alla fine dei loro giorni che così la Repubblica popolare cinese, dopo rivoluzione culturale e gli incidenti di piazza Tienanmen, avesse finalmente trovato  la  via  alla  tanto  attesa  sintesi  delle  promesse  di  giustizia  sociale universale elaborate sia in nome del liberalismo borghese sia in nome del comunismo. Molti sintomi contrastano però con questa visione ottimistica. Non solo le crescenti differenze sociali che, nonostante l’ingrossarsi del ceto medio, affliggono soprattutto le parti più povere della società cinese[8], non solo le politiche di neocolonialismo promosse da Pechino in molte parti del mondo (malgrado  i  metodi  utilizzati  siano  assai  meno  aggressivi  delle  tradizioni brutalmente belliciste del capitalismo occidentali), ma sopratutto le esplicite strategie del Pcc.

Da quando, nei primi anni Ottanta del secolo scorso, Deng Xiaoping ha incominciato a teorizzare una via tutta cinese a un inedito «socialismo di mercato», la retorica del partito è divenuta infatti sempre più decisamente qualificabile come nazional-comunista. Nel senso che l’obiettivo del comunismo non è concepito altrimenti che come conseguenza dei successi nazionali. Come dire, una sorta di «China first!» come controcanto al trumpiano «America first!».

Sotto i nostri occhi si sta dunque sempre più imponendo un nuovo inedito protagonismo mondiale di paesi ancora e già comunisti quali Cina e Russia: entrambi ben più sovranisti, in quanto Stati multinazionali, che comunisti, e tuttavia ben lontani da ogni precedente di paesi nazionalisti. Una singolarità questa che obbliga ad uno sguardo singolare. Non è dunque senza ragione che è diventato di uso corrente lo strano accoppiamento di termini come sovranismo e populismo, che qui assumiamo come cifra ben caratterizzante la differenza dell’epoca in corso rispetto alle precedenti.

Misura politica ne é soprattutto il declino di ciò che Fassin[9]  ha chiamato «etica compassionale». Di quell’etica, cioè, attualmente rivendicata con decisione solo da Papa Bergoglio e che, pur con tutte le sue ambiguità e fallimenti, era priorità obbligatoria nella retorica di ogni governo e di ogni organizzazione internazionale[10]. Nell’epoca che si sta aprendo è probabile che simili ambiguità e fallimenti si faranno sempre più rari per il semplice fatto che ogni intento di giustizia sociale universale sembra destinato a venire dimenticato o relegato a una sempre meno supportata buona volontà filantropica. Né le conseguenze che tutto ciò potrà avere sull’impennarsi della mortalità globale destano grandi scandali,  stante  l’acritico  diffondersi  delle  ansie  di  fronte  a  un  aumento demografico ritenuto eccessivo per le sorti del pianeta[11].

Può non sembrare il caso di attribuire alla Cina tanta importanza simbolica in questa involuzione antiumanitaria delle politiche mondiali, ma non bisogna dimenticare che l’umanitarismo quale finora l’abbiamo conosciuto è decollato nell’immediato dopoguerra anzitutto come risposta a quello che allora era il dilagare del comunismo vincente in mezzo mondo. È stata infatti la giustizia sociale universale promessa dall’Urss, con tutti i partiti, movimenti e Stati suoi alleati, a creare dopo la sconfitta dell’asse nazifascista quell’«entusiasmo delle masse per il socialismo», come lo chiamava Mao, che ha costretto la controparte capitalista a correre ai ripari sullo stesso terreno di battaglia alle iniquità sociali più evidenti. Ed è di qui (come già ampiamente argomentato da questo libro) che sono venute anche tutte le politiche di welfare le quali hanno reso «gloriosi» i trent’anni successivi al ’45.

Se dunque lo stesso nome comunismo in salsa cinese viene oggi a significare esattamente il contrario di quello per cui è stato così entusiasmante e persuasivo per la controparte capitalista, allora vuol proprio dire che si sta chiudendo l’intera lunghissima parabola storica iniziata nel secondo dopoguerra. E non certo con le migliori prospettive. Per non lasciare che sia questa l’unica conclusione possibile bisogna dunque prendere più che mai radicalmente le distanze da ciò che più ha favorito questo esito regressivo: il nazional-comunismo.

 

Le perversioni politiche del nazional-comunismo

L’idea che il comunismo potesse realizzarsi con la fusione «organica» di partito, Stato e società non è certo un’idea cinese. Tant’è che è proprio questo tipo di «organicità» che persino Gramsci auspica nei suoi Quaderni del carcere[12] . Che i militanti dovessero prima o poi trasformarsi in impiegati, funzionari e soldati regolari é stata in effetti una tra le interpretazioni prevalenti nella storia che è seguita al Manifesto di Marx ed Engels, nonostante le loro ben diverse intenzioni. Ciò però non ha tolto che, additando il fine comunista, si è sempre preconizzato il trionfo di una giustizia sociale universale. In quest’ottica la nazione è sempre stata assunta come una «questione», mai come una soluzione. Tuttavia nel corso della più grande, profonda e terrificante sperimentazione condotta in nome del marxismo, quella della costruzione dell’Urss, si è affermata l’idea, sì dialettica, ma unilaterale, per la quale l’internazionalismo comunista avesse trovato la sua patria. Prima però che da questa idea derivassero tutte le sue conseguenze più controproducenti occorrerà attendere la fine egli anni Settanta del secolo scorso: è solo a partire da quegli anni che nazionalismo e comunismo cominciano ad andare a braccetto, a contaminarsi sistematicamente l’un l’altro. Prima di allora convergenze e divergenze tra tattiche nazionaliste e strategie comuniste si sono alternate, lasciando sempre un margine di credibilità all’internazionalismo rivendicato da queste ultime.

Un esempio classico a questo proposito viene proprio dalla storia dell’Urss costruita in un alternarsi di successi eccezionali e orrori ininterrotti, e culminata con quella «grande guerra patriottica» che il partito di Stalin – con uno degli zig zag dei quali lo accusava Trotzkij – riesce a mobilitare. Senza l’evento glorioso di Stalingrado non sarebbe infatti neanche immaginabile tutta la serie di risultati formidabili quali: non solo lo stop irreversibile all’espansione mondiale del nazismo, non solo la rinascita partigiana di tutta l’Europa, ma anche il dilagare del comunismo nel mondo e la messa sotto assedio del capitalismo. Altro clamoroso esempio che attesta la vitalità internazionalista del comunismo anche nel secondo dopoguerra è ovviamente il cosiddetto Sessantotto, ossia quel decennio che precede e segue quell’anno simbolico, durante il quale le sperimentazioni politiche egualitarie in nome dei popoli oppressi e dei classici del marxismo sono pullulate ovunque – e sopratutto nella stessa Cina.

Ma certo bisogna anche rovesciare la medaglia e non chiudersi gli occhi di fronte alla Germania del ’53, all’Ungheria del ’56, al Tibet del ’59, al muro di Berlino del ’61, alla Cecoslovacchia del ’68 e ai tanti altri casi che raccontano tutta un’altra storia. Una storia nella quale l’internazionalismo di tipo sovietico finisce per far rima con imperialismo. É però appunto solo col finire degli anni Settanta  che  questo  peggio  diventa  schiacciante,  comprimendo  lo  slancio universalistico del comunismo a fenomeno marginale, mantenuto in via solo da gruppi di attivisti, movimenti antagonisti o riflessioni filosofiche. Da allora in poi a imporsi in nome del comunismo saranno soprattutto figure di un nazionalismo  indifendibile  come  quelle  del  Vietnam  (subito  dopo  la  pur gloriosa  vittoria  sull’imperialismo  americano),  della  Polonia  di  Jaruzelski, della Romania di Ceaușescu, dell’Albania di Enver Hoxha, della Serbia di Milošević, della parrebbe immarcescibile Corea del Nord, della stessa Urss prima del suo confuso disfacimento e della stessa Cina col suo «socialismo di mercato».

Se, insomma, la storia di ogni governo comunista è sempre stata fatta più da ombre che da luci, all’alba degli anni Ottanta questa storia finisce per sprofondare nelle più cupe perversioni politiche. Al punto che il crollo del muro di Berlino e della stessa Urss susciteranno ovunque ben pochi rimpianti, mentre la controrivoluzione capitalista godrà di consensi euforici scambiando questi disastri come sue vittorie. Saltando a tempi più recenti, viene allora da chiedersi come mai la Repubblica popolare cinese, dopo essere stata protagonista degli eventi planetari attorno al Sessantotto e dopo essere finita tra gli anfratti più bui della storia come ogni regime comunista negli anni Ottanta, da allora in poi sia riuscita nella più straordinaria rincorsa economica mai vista, senza rinunciare a una sia pur relativa continuità come regime politico.

 

La superpotenza cinese

Per provare ad accennare una pista in questo senso, mi limito a quanto più concerne il filo del discorso sulla politica come esperienza sui generis. Prendiamo allora quel che è accaduto a una specifica figura della società cinese, già al centro di discussioni e conflitti durante la rivoluzione culturale e invece quanto mai sostenuta e promossa dal Pcc dopo la svolta impressa da Deng al «socialismo di mercato». Si tratta degli «esperti», ovvero dei tecnocrati. Sarebbe a dire quella popolazione di scienziati, tecnici, quadri, funzionari, impiegati, soldati e così via, specializzati in un qualche campo del sapere, non di rado perfezionati in università americane o straniere. Una popolazione, questa, che ha costituito un importante nerbo del ceto medio espansosi in Cina dagli anni Ottanta in poi e che è stata protagonista anche del proliferare delle fin troppe, troppo estese e inquinate megalopoli ivi edificate spesso in tutta fretta. La battuta qui potrebbe essere insomma che il paese già a suo tempo dei mandarini tra il secondo e il terzo millennio è diventato il paese degli «esperti».

Contro ogni visione della politica come riflesso del sociale e dell’economia, l’espansione del ceto medio specializzato in Cina mostra quanto invece sia proprio la politica a poter decidere delle sorti del sociale e dell’economia. E ciò specie se si tratta di una politica guidata da un’organizzazione dotata di un proprio bagaglio dottrinario che non si confonde con quello delle regole statali. In effetti senza l’esistenza del Pcc e la sua politica in favore degli «esperti» non si capirebbe come la Cina abbia potuto seguire e non seguire, ossia seguire in modo tutto suo il trend della globalizzazione neoliberale dei mercati. Adeguarsi a questo trend di mercato e al tempo stesso sviluppare il socialismo, secondo la formula «socialismo di mercato», ha significato in effetti due cose del tutto contrapposte: da un lato, fare tutto e di più di quanto richiesto dalle oligarchie produttive, finanziarie e informatiche, spasmodicamente a caccia in tutto il mondo di condizioni più favorevoli allo sfruttamento della mano d’opera; d’altro lato, copiarle per divenire loro concorrenti in tutto tranne che gli effetti delle loro strategie proprio sul ceto medio. Così, mentre negli Stati Uniti questa popolazione si impoveriva e si dequalificava, a meno di non essere agganciata ai progetti privati più immediatamente remunerativi, in Cina accadeva esattamente il contrario: che il ceto medio si qualificava e diventava l’esercito di specialisti in grado di fare meglio persino dei concorrenti occidentali imitati [13].

Il segreto dello stupefacente successo cinese è dunque da cercarsi anche nell’originale bagaglio dottrinario del Pcc. E più in particolare due riferimenti che a suo tempo sono stati, come la stessa figura dell’«esperto», bersagli sistematici delle contestazioni della rivoluzione culturale. Da un lato la tradizione di pensiero più coltivato nell’etnia dominante, quella han: sarebbe a dire il confucianesimo. Dall’altra, il marxismo inteso come ai tempi dell’Urss, nel senso più che mai antiutopico, e quindi oltremodo scientista, cioè incline a privilegiare le ricerche con maggiori ricadute tecnologiche. Sono questi i riferimenti che si sono dimostrati assai funzionali sia a imitare le novità del sapere occidentale (ivi incluse le dottrine neoliberali e le teorie informatiche) sia a non farlo passivamente.

Arrighi sottolinea il contributo finanziario dato dagli emigrati cinesi nel sostenere la costruzione del socialismo di mercato perseguito sotto la direzione di Deng, la quale avrebbe anche saputo valorizzare come mai in precedenza anche la pregressa, diffusa ed elevata qualificazione dei operai. Ma è indubbio che, dopo la fine della rivoluzione culturale, la promozione del socialismo di mercato e degli esperti competenti a realizzarlo ha comportato qualcosa già al centro delle analisi di Marx: ciò che egli chiamava l’accumulazione capitalistica originaria. Di qui tutte le conseguenze peggiori ben note: lo sfruttamento bestiale di ampie quote di forza lavoro ridotte praticamente in schiavitù, l’abbandono alla povertà di ampie zone agricole, le sistematiche vessazioni etniche di minoranze come quelle uiguri, tibetane, di Hong Kong; ma a tutto ciò si devono aggiungere anche le ambizioni colonialiste di Pechino in Africa e altrove, segnatamente tramite il megaprogetto delle vie della seta. Una lista di «ombre cinesi» tra le quali non si possono non citare anche non sottostimabili fenomeni di corruzione pubblica e criminalità organizzata.

Resta che sotto la spinta della rincorsa cinese l’intero pianeta è politicamente cambiato. Definitivamente sfatato è il residuo mito razzista secondo il quale non ci può essere progresso duraturo se non a guida occidentale. Così come nessuno può più dubitare che anche i paesi più poveri possono mettersi in condizione di cambiare il proprio destino. Accanto a questo segnale di speranza, resta però anche un segnale ben meno incoraggiante, tale da far temere che questo cambiamento stia prendendo una piega, quella sovranista e populista, che è la peggiore in tema di giustizia sociale universale e cui la stessa Cina contribuisce enormemente.

Per cercare come questo destino possa essere anche solo minimamente intralciato, sviato o interrotto è importante riflettere sulla prima delle tre epoche che hanno succeduto la seconda guerra mondiale: quella dei «trent’anni gloriosi», grosso modo tra 1945 e il 1975. Trattandosi di Cina il pensiero non può non andare a quella «Rivoluzione culturale» (a suo tempo detta anche «grande» e «proletaria») che con le sue premesse, picchi, riflussi e strascichi è durata più di dieci anni (tra il 1965 e il 1975), e il cui ricordo evoca una dimensione politica quanto mai estranea a quella poi invece perseguita dal Pcc.

 

Ripensare la rivoluzione culturale

Travolta dalle calunnie concentriche provenienti sia dal comunismo sovietico, sia dai comunisti cinesi più ortodossi, sia degli anticomunisti occidentali e filoccidentali, la memoria della rivoluzione culturale langue da tempo sotto una spessa coltre di discredito quasi unanime. Tra le tante denigrazioni una delle più circolanti è di essere stata una persecuzione di massa e senza quartiere scagliata contro ogni moderato dissidente rispetto alla linea più ideologica e personalistica di Mao. E dato il suo stracitato motto sull’«inchiesta» come preliminare obbligatorio a ogni presa di parola militante, anche questa categoria, così entusiasmante per tutte le esperienze del Sessantotto, giace sotto sospetto. Ad aggravare questa situazione sono poi arrivati i più recenti successi cinesi sul piano informatico. Ciò che l’opinione occidentale obietta loro è infatti di essere finalizzati a quel controllo del partito sul sociale di cui appunto il tema maoista dell’inchiesta sarebbe precedente.

Il successo di libri come Il capitalismo della sorveglianza di Soshanna Zuboff [14] fa però pensare che anche in occidente sia stata oramai corrosa la fiducia in quel pilastro della tradizione liberale che è la difesa della privacy. Così pare che l’intimità individuale si stia trovando sempre più esposta a quella caccia ai big data già da molti anni scatenata in nome del più cinico pragmatismo neoliberale. La fantasia è quindi indotta a immaginarsi cupe distopie dominate da «grandi fratelli» all’ennesima potenza. La Cina attuale si trova allora a rappresentare solo il più temibile apripista verso simili mondi da incubo, dove niente preserverebbe dal più completo monitoraggio manipolatorio delle opinioni[15].

Simili fantasie non sono però altro che uno frutti avvelenati del modo democratico di pensare la politica: il pregiudizio ormai nostalgico, dato il declino di questo modo di pensare, che pretende di far credere che sia esistito e possa esistere un mondo nel quale ogni individuo ragiona e decide esclusivamente con la propria testa, interpretando a sua maniera ogni informazione ed esprimendo liberamente il proprio parere politico quando lo Stato lo convoca alle scadenze elettorali. Per non perdersi in simili vaneggiamenti, non c’è che un punto fermo cui attenersi. La constatazione assai facile e intuitiva che la conoscenza e il condizionamento delle popolazioni alle quali si rivolge sono sempre stati e sempre saranno necessità imprescindibili di ogni strategia politica, buona o cattiva, giusta o ingiusta che sia. Soprattutto a partire dai trent’anni gloriosi seguiti al secondo dopoguerra, la vita di gran parte dell’umanità è stata inevitabilmente condizionata da scelte strategiche riguardanti l’uso delle tecnologie e delle redistribuzioni dei loro effetti, buone o cattive, giuste o ingiuste che fossero.

Vano è dunque prendersela con il potere della politica in genere e più in particolare di quello che Foucault ha chiamato biopolitica. Più pertinente è chiedersi come si possono distinguere dei metodi giusti da quelli ingiusti nel conoscere e condizionare politicamente ciò che la gente pensa. Qui chiamo «ingiusto» un metodo di ricerca e condizionamento che privilegi un settore di popolazione a scapito di altri. Per spiegare come sia proprio questo il modo di funzionamento dominante nella caccia ai big data, sia in occidente che in oriente, riprendo una illuminante citazione di Zuboff: «il capitalismo della sorveglianza sa tutto di noi, mentre le sue operazioni sono progettate in modo che noi non ne sappiamo nulla».

Per Zuboff il problema che ci sovrasta e che ci sovrasterà nel futuro è dunque un problema cognitivo, di «asimmetria» nel sapere, tra sorveglianti e sorvegliati nel campo della circolazione delle informazioni. Unica alternativa immaginabile non può evidentemente venire che da una riduzione di questa asimmetria, tale da far sì che i sorvegliati ne possano sapere di più dei sorveglianti, ma sempre a proposito della sorveglianza sulla circolazione delle informazioni. Presupposto indiscusso della Zuboff è che viviamo in quella che le teorie cognitiviste esplose in concomitanza con la cosiddetta rivoluzione informatica hanno chiamato società della conoscenza. Stante una simile visione del mondo, dove ogni idea politica sembra convertirsi in imperativi tecnologici, le figure protagoniste sono inevitabilmente quegli stessi esperti che abbiamo visto esplicitamente privilegiate dalla Cina da quando, sul finire degli anni Settanta, ha cominciato a orientarsi verso la via del socialismo di mercato.

Ecco allora perché è così importante contrastare l’opinione oggi unanimemente condivisa secondo la quale questa via che ha privilegiato gli esperti in generale e in particolare sempre più quelli informatici, dediti al controllo e al condizionamento delle informazioni, non sia stata altro che una continuazione della via politica già a suo tempo seguita in nome dell’inchiesta maoista. In effetti solo cogliendo la differenza radicale tra cosa era la Cina della Rivoluzione culturale e cos’è la Cina attuale può risultare meno vaga la distinzione tra metodi giusti e metodi ingiusti nel controllare e condizionare le popolazioni.

Prima annotazione necessaria è che tutto nella Cina della Rivoluzione culturale avveniva in nome non del sapere, non del marxismo come scienza, né degli esperti, ma del pensiero: certo, anzitutto, il pensiero del presidente Mao e dei militanti suoi seguaci più stretti come le Guardie rosse, ma anche delle «masse», visto che erano supposte in grado di applicare «creativamente» il pensiero del primo.

Altra annotazione importante è che il termine «masse» indicava chiaramente gente senza qualifiche, senza sapere, senza potere sui propri simili e a essi accomunati dall’esperienza di sofferenza sociale.

Terza annotazione è che era proprio il faccia a faccia tra questi due tipi di pensiero, quello dei militanti maoisti e quello delle masse, a costituire il nucleo di quello che si chiamava inchiesta.

Ulteriore annotazione è che così la figura dell’«esperto» non veniva affatto abolita – non fosse che per il fatto che l’inchiesta richiedeva chi sapesse condurla –, ma questo saper fare non puntava al controllo e all’estrazione di un altro sapere, ma a far ripensare la sofferenza sociale a chi la pativa direttamente. Il militante dunque come esperto che usava il suo sapere solo per interpellare le masse e apprendere da esse come poter pensare di ridurre tale sofferenza.

Ecco dunque dove stava la grande differenza con quella che in Cina sarà poi la via del socialismo di mercato. Se questa favorirà l’empowerment della figura degli esperti, più in particolare quella figura di esperti informatici che l’occidente tanto oggi invidia e teme, la via della rivoluzione culturale puntava invece a riscattare le «masse» senza sapere né potere. Ora la promozione di una popolazione di privilegiati, allora l’alleviamento della sofferenza sociale più acuta. Metodi ingiusti e metodi giusti, appunto.

Certo di fronte a queste annotazioni nel lettore più attento può subito insorgere un’obiezione. Per trattare di argomenti simili l’utilizzo del termine «sofferenza» può apparire poco pertinente o peggio troppo conforme a quella tendenza alla «psicologizzazione» dei problemi sociali notata da Fassin come correlato della diffusione della ragione umanitaria impostasi globalmente sul finire del secolo scorso. Ma in effetti qui il riferimento alla psicanalisi non può non c’entrare, per quanto strano possa sembrare. Non è infatti solo un caso che tra gli echi più immediati e rilevanti del maoismo nel mondo vi fu la conversione a esso in Francia di numerosi allievi di quel Jacques Lacan che in quegli  stessi  anni  stava  compiendo  una  sorta  di  rivoluzione  culturale all’interno  del  vasto  novero  dei  seguaci di  Freud[16] .  Evocare  l’esperienza analitica per approfondire il senso dell’esperienza militante maoista permette in effetti di azzardare che tra questi due tipi di ricerca ci fosse almeno un punto in comune: proprio la questione della sofferenza, quella individuale, psichica nel  primo  caso,  quella  collettiva,  per  lo  sfruttamento,  l’oppressione  e  le ingiustizie, nel secondo caso. Così come lo studio dell’isteria femminile è notoriamente stato all’origine della rivoluzione freudiana – come Lacan ha insistentemente fatto notare –, allo stesso modo si può dire che il pensare ciò che pensano le masse della loro sofferenza per le ingiustizie sociali sia stato all’origine della Rivoluzione culturale in Cina.

Una svolta auspicabile sarebbe forse registrabile nel momento in cui invece di continuare a invidiare la Cina d’oggi e a commiserare quella dei tempi di Mao, ci si rendesse conto che allora brillava talmente di una sua luce intellettuale che tutto il mondo e gli esperti delle più svariate competenze ne erano abbagliati.

 

______________________________

* Anteprima di un capitolo del libro in corso di pubblicazione La politica come esperienza tra il XX e il XXI secolo. Come articolo è inoltre uscito in Machina, 10/2020 (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-cina-nella-globalizzazione).

[1] Che  nella  Ue  continuiamo  a  credere  un  fenomeno  micronazionalista,  mentre  i maggiori esponenti di questa corrente, come Bolsonaro, Duterte, Modi, Johnson e lo stesso Trump,   senza   dimenticare   Xi   Jing   Ping   e   Putin,   sono   a   capo   di   Stati multinazionali.

[2] G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008.

[3] A. Giannuli, Come funzionano i servizi segreti. Dalla tradizione dello spionaggio alle guerre non convenzionali  del  prossimo  futuro,  Ponte  alle grazie,  Firenze  2009;  Id., Mafia mondiale. Le grandi organizzazioni criminali all’epoca della globalizzazione, Ponte alle grazie, Firenze 2019.

[4] Sulla metamorfosi dei partiti americani a partire dagli anni Novanta vedi Y. Mounk, Popolo vs democrazia.  Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale,  Feltrinelli,  Milano 2018.

[5] A.D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss University  Press, Milano 2019; L.  Napoleoni, Maonomics. L’amara medicina cinese contro gli scandali della nostra economia, Bur, Milano 2013; A. Bagnai – C.A. Mongeau Ospina, La crescita della Cina. Scenari e implicazioni per gli altri poli delleconomia globale, Franco Angeli, Milano 2010.

[6] G. Messetti, Nella testa del Dragone. Identità e ambizioni della nuova Cina, Mondadori, Milano 2020.

[7] D. Losurdo, Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e autofobia, La città del sole, Napoli 1999 (in particolare il cap. IV, «Cina popolare e bilancio storico del socialismo»).

[8] P. Ngai, Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti, Jaka Book, Milano 2012; Id., Morire per un iPhone. La Apple la Foxconn e la lotta degli operai cinesi, Jaca Book, Milano 2015; Id., Ritorno alla sinistra. Politica di classe eimmaginazione comunista nell’alleanza operai-studenti, «ChinaFiles.com», 25 agosto 2020.

[9] D. Fassin, La ragione umanitaria.  Una storia morale del presente, DeriveApprodi, Roma 2018.

[10] Sui loro fallimenti e sui connessi tentativi di occultarli si veda J. Hickel, The divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale, Il Saggiatore, Milano 2018.

[11] Una critica sistematica di questa opinione la si trova in P.N. Giraud, Lhomme inutile. Une économia politique du populisme, Odile Jacob, Paris 2015.

[12] In nome di una vulgata oramai dominante si obietterà che questi sono scritti di un libero pensatore, vittima tanto del fascismo quanto del comunismo sovietico, più che mai lontano dal marxismo allora promosso da Mosca. Ma così si dimentica che dopo   la morte di Gramsci, prima di tornare in Italia ed essere pubblicati, i testi oggi conosciuti come Quaderni del carcere sono passati da Mosca e dunque al suo vaglio.

[13] Si veda S. Pieranni, Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Laterza, Bari-Roma 2020.

[14] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dellumanità nellera dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma 2019.

[15] Pieranni, in Red Mirror, descrive bene il sistema di «valutazione sociale» con cui i comportamenti di ogni cinese o quasi, specie se residente in una delle tante smart city, sono giudicati da tutti gli altri concittadini dotati come lui di WeChat: la «app delle app», contenente tutti i dati e le funzioni atti a questo come a infiniti altri scopi più personali o relazionali. La straordinaria diffusione di questo fenomeno di sorveglianza dal basso, orizzontale, porta a porta, di ciascuno nei confronti di ciascun altro,  dimostra però che in Cina esso viene inteso da parte dei loro utenti come un modo   per rendere il proprio paese più meritocratico, giusto e armonioso. Così tra di essi rimane alto il consenso anche nei confronti di quell’occhiuto supervisore di ogni fenomeno sociale che è sempre il Pcc: un partito così radicato nel nuovo ampio ceto urbano da poter vantare anche le virtù democratiche di saper dialogare con critiche e proposte avanzate da movimenti di opinione, specie in materia ecologica.

[16] A. Badiou, Lavventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta, DeriveApprodi, Roma 2013; N. Michel, Roman de la politique, La fabrique, Paris 2020.

 

L'articolo Gramsci a Wuhan* proviene da MAGGIOFILOSOFICO.

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Il lavoro c'è, se non lo trovi è solo colpa tua Eugenio Donnici Gio, 23/07/2020 - 15:34
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Una delle prediche che i giovani si devono sorbire, quando conseguono un diploma o una laurea, è quella che non sono preparati per entrare nel mondo del lavoro - detta brutalmente «Non sanno fare niente!». Si tratta di una critica disarmante, e per certi aspetti pericolosa, poiché butta fango sul sistema educativo in generale e denigra il bagaglio culturale di chi segue i percorsi formativi delle scuole secondarie e quelli universitari.

A nulla valgono tutti in tentativi di stare al passo coi tempi, cioè di praticare e sperimentare forme didattiche laboratoriali. Anzi, più ci si affanna ad adeguarsi al mondo del lavoro e più si percepisce che quel mondo tende a chiudere le porte, rinfacciando a chi bussa di non essere all’altezza del compito che dovrebbe svolgere. Alcune critiche nei confronti dei neolaureati e neodiplomati sono così aspre che sfiorano il ridicolo: questi soggetti non sarebbero in grado di scrivere un curriculum vitae, di sostenere un colloquio di lavoro.

Neolaureati e neodiplomati sono completamente smarriti e disorientati. A nulla valgono le conoscenze e le competenze che hanno sviluppato: per lo più finiscono per essere considerate solo carta straccia.

La frattura che si è aperta tra i sistemi formativi e i relativi mondi del lavoro si è trasformata in una falla o, meglio, è proprio il movimento sottostante al terreno su cui continuiamo a poggiare i piedi che alimenta costantemente quella rottura che noi vediamo in superficie.

Quando la terra balla sotto i propri piedi, anche le certezze assolute iniziano a tremare, e credo che non ci sia scampo nemmeno per quei baldanzosi oltranzisti che incarnano le vestigia del capitale. D’altronde, questi ultimi si vengono a trovare nella condizione simile a quei genitori che non riconoscono i propri figli: il capitalista, che incarna il capitale, non riconosce - o riconosce in modo del tutto parziale - quei figli che si presentano sulla soglia della propria azienda come salariati, in quanto per la propria sopravvivenza ha bisogno di manodopera gratis, al massimo sottopagata.

Gli imprenditori, molto spesso, non ammettono che non sono in grado di perpetuare quella relazione sociale che li rende vitali, e quindi attaccano il sistema formativo. Vorrebbero trasformarlo a loro immagine e somiglianza, cioè in un’azienda. Pertanto, avanzano la pretesa che le barriere in entrata, in quei mondi che gravitano nella loro sfera d’influenza, siano connesse alle scarse competenze di cui dispongono le nuove generazioni, beninteso, non solo per loro responsabilità, ma soprattutto per quella dei loro formatori. Ecco allora che si sentono chiamati in causa a salvare quei mondi, là dove si sentono a proprio agio, e di conseguenza autorizzati a entrare indirettamente nel sistema formativo, dettando a coloro che si trovano nelle scuole secondarie e negli atenei universitari, ma anche ai disoccupati, le norme morali per essere “appetibili” nel mercato del lavoro.

E su queste note che s’intreccia la raccolta di saggi, a cura di Rossana Cillo, disponibile gratuitamente in rete e che analizza in modo sistematico le condizioni di esistenza di milioni di persone che finiscono nel limbo degli stage e tirocini. Due parole diverse, nella lingua italiana, per indicare una condizione di vita simile, per esprimere in modo sintetico una situazione contraddittoria che diventa lacerante per chi la vive per un lungo periodo di tempo. Questi soggetti sono in una situazione di stallo: né lavoro, né formazione; entrano in competizione con se stessi, con gli altri tirocinanti e con i lavoratori a tempo determinato e indeterminato. Se i periodi di stage vengono reiterati, come si può osservare nella prassi, allora la maggior parte dei soggetti coinvolti imboccano un vortice depressivo che mette in discussione le risorse interne di cui dispongono, quindi inizia un lungo processo di auto-negazione, di perdita dell’autostima, di logoramento, in altre parole essi tendono a considerarsi dei falliti, specialmente se si confrontano con coloro che si trovano nel pieno della carriera.

Ma le peripezie del tirocinante non finiscono qui, infatti il quadro delineato qui sopra si aggrava per la scarsa o addirittura mancante retribuzione, il che significa negazione della gratificazione economica per far fronte ai bisogni della vita quotidiana.

Gli autori del libro forniscono una spiegazione che mette fortemente in dubbio la validità degli strumenti messi in campo dalle imprese, dagli enti pubblici e dalle associazioni no profit, come gli stage e i tirocini, al fine di risolvere il problema della disoccupazione giovanile, poiché affermano che solo una piccola percentuale di essi approda a un contratto di lavoro vero e proprio. (1)

Nel telaio principale di questa raccolta di ricerche (liberamente accessibili), è possibile cogliere una sfumatura molto sottile del problema che stiamo cercando di enucleare: nel contrasto tra capitale e lavoro, che ha animato la platea internazionale, nell’ultimo ventennio, le imprese, anche per via della ristrutturazione capitalistica avviata sul finire degli anni 70 del secolo scorso, sono riuscite a far passare il concetto che non esiste un problema di “occupazione” ma di “occupabilità”. (2)

L’occupazione implica di per sé l’essere occupati a svolgere un determinato lavoro in un determinato luogo e entrare in una relazione di dipendenza e indifferenza reciproca, nell’ottica di una divisione internazionale del lavoro, che prende corpo in quell’astrazione che noi chiamiamo mercato e mediante il quale noi soddisfiamo una serie di bisogni. Di solito sono i lavoratori a perdere il posto di lavoro e a diventare disoccupati. Forse, è il caso di precisare che anche le imprese e i lavoratori autonomi possano entrare a far parte del circolo dei disoccupati, ma in questi casi si preferisce utilizzare il termine fallimento, per intendere che necessitano di una fase riabilitativa, qualora decidessero di ritornare a condurre il mondo degli affari.

Con il temine occupabilità, invece, si fa riferimento alla distanza che sussiste tra la persona disponibile a lavorare e le condizioni di mercato. Quindi non ci sono posti(luoghi) da occupare, ma solo distanze da colmare, ogni luogo viene trasformato in un non luogo, accettando di divenire iper-flessibili, di adeguarsi ai capricci del mercato e autoconvincersi che se si rimane fuori gioco dipende in misura prevalente dalla propria volontà. In questa prospettiva niente è impossibile, ogni traguardo può essere raggiunto, è sufficiente seguire il filo nero delle forze magiche del mercato, poiché solo così possiamo moltiplicare le nostre occasioni di lavoro, come i funghi, che si moltiplicano dopo la pioggia in un terreno adeguato e con il clima favorevole. Ma c’è di più. C’è da sopportare l’atteggiamento di chi ti rinfaccia che se non riesci a trovare un lavoro è solo colpa tua, poiché non sei in grado di venderti, non sei capace di riqualificarti, ragion per cui necessiti di essere formato e ri-formato.

Dunque, non solo il concetto di disoccupazione involontaria è stato eclissato, ma si è affermato il principio che le imprese non assumono, in quanto non trovano il personale con quelle abilità specifiche di cui hanno bisogno per un utilizzo perentorio, lasciando intendere che le difficoltà, che incontrano nella riproduzione delle loro condizioni di esistenza (del capitale d'impresa), siano da attribuire alle scarse competenze che rilevano nei nuovi e vecchi dipendenti, i quali se vogliono stare al passo coi tempi devono intraprendere la strada della formazione permanente.

Tutta questa poltiglia ideologica è diventata una credenza dogmatica, al punto che si è modellato tutto il sistema educativo in base alle esigenze delle imprese, con l’obiettivo di sfornare «diplomati o laureati che, alla conclusione degli studi, posseggano oltre ad una solida preparazione teorica, anche le cosiddette “job-ready skills”», in modo che siano «pienamente produttivi fin dal primo giorno di lavoro» (3)

In un simile quadro dagli spazi angusti, la conoscenza del fenomeno della disoccupazione come problema sociale è evaporata, e il vuoto è stato riempito con una serie di cianfrusaglie che rimandano alle competenze del singolo individuo.

Il singolo individuo deve imparare a presentarsi come un “prodotto appetibile” nel mercato del lavoro, altrimenti non trova una corrispondenza a quelle che sono le prerogative delle politiche di reclutamento. In un certo senso, il singolo eroe, come d’incanto, è chiamato a seguire una sorta di profezia che si auto-realizza.

Ma le competenze professionali, ai giorni nostri, non sono più sufficienti. Pertanto gli aspiranti lavoratori devono conseguire anche le competenze trasversali. Su quest’ultimo tema esiste un’ampia pubblicistica che si basa su «studi che coniugano scienze economiche, scienze psicologiche e neuroscienze per intervenire sulla personalità dei lavoratori (e soprattutto dei futuri lavoratori) educandoli a diventare ciò che vogliono mercato e imprese». (4)

Sono queste le basi sulle quali s’innestano le politiche legislative della scuola pubblica italiana negli ultimi due decenni. Fermo restando che tale processo dev’essere inquadrato in un contesto internazionale.

Infatti, i “work based learning programs”, gli stage curriculari ed extra-curriculari, sono nati negli USA. Successivamente sono approdati in Europa e quindi si sono diffusi in quasi tutto il mondo. Un solo dato potrebbe darci l’idea del fenomeno che sto provando a delineare: «un terzo dei dipendenti della Foxconn sono stagisti, ossia circa 450.000 su 1.300.000». (5)

Sfortunatamente, questi folti eserciti di stagisti, disposti a fare qualsiasi cosa, pur di ottenere un’esperienza lavorativa, attirano le ire dei lavoratori con contratti atipici e tipici, i quali considerano gli sventurati, nella maggior parte dei casi, alla stessa stregua dei servi, persone senza dignità.

Eppure, malgrado la tendenza fideistica di coloro che premono per entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro, pochi delegati sindacali sono a conoscenza delle dinamiche degli stage e tirocini extra-curriculari come strumenti di disciplinamento «dei futuri lavoratori alla precarietà, all’autosvalorizzazione, all’autosfruttamento». (6)

Ma è ancor più sorprendente che la pedagogia delle competenze lavorative abbia pervaso le scuole secondarie e gli atenei, senza che sia emerso, nel frattempo, un movimento in grado di contrastare questa tendenza storica, nonostante le evidenze catastrofiche delle politiche adottate.

L’introduzione degli stage e dei tirocini nei percorsi curriculari, con il benestare implicito ed esplicito di tutti i docenti coinvolti nel processo, non ha preparato il terreno per facilitare l’accesso dei giovani nel mondo della produzione di beni e servizi. Anzi, le barriere in entrata sono aumentate, poiché a tanti di loro viene proposto uno stage extra-curriculare. Pertanto, agli studenti, in qualche modo, viene insegnato come adattarsi a condizioni di vita precarie.

Nella prassi, ogni tentativo da parte delle imprese di avere forza lavoro pronta per l’uso, una volta terminati gli studi, non fa che alimentare quella frattura – qui sopra accennata - tra lo sviluppo delle forze produttive e il loro utilizzo all’interno di uno schema di rapporti sociali di produzione in via di disgregazione. Tra le altre cose, le imprese richiedono maggiore efficienza al sistema formativo e rispondono con degli espedienti, che trovano conferma nella produzione legislativa degli ultimi venti anni, per imporre forme di lavoro sottopagate o gratuite.

Dal loro canto, molti di coloro che seguono gli stage aziendali, non solo imparano velocemente la mansione lavorativa da svolgere, ma spesso si rendono conto che sono altrettanto produttivi come i lavoratori assunti con contratti regolari, senza tralasciare che alcuni stagisti, in molte situazioni, posseggono capacità analitiche, di sintesi ed operative più elevate degli stessi organizzatori del praticantato.

In definitiva, nello scorrere le pagine dei lavori che compongono questa grande “opera pubblica”, è possibile vivere l’esperienza di tutti quei soggetti che ricadono nel cerchio degli stagisti. Man mano si scopre la natura illusoria degli stage, essi assumono la struttura di quei riti propiziatori praticati nelle forme sociali arcaiche, quando, per esempio, si praticava la danza affinché piovesse. Oggi, allo stesso modo, mi sacrifico al capitale come tirocinante, poiché sarò assunto domani. E devo dire che si prova un certo grado di incredulità nell’ammettere le verità alle quali pervengono gli autori del libro, in quanto ognuno di noi, agendo come singolo individuo, si auto-convince della necessità di convalidare questo genere di riti. In fondo, è difficile dirlo, ma ogni atto legislativo in merito esprime “un linguaggio pedagogico” che mira a far interiorizzare tutte quelle azioni conformi allo svolgimento dei periodi di stage, mentre l’insieme delle norme formano un groviglio legislativo che abbaglia qualsiasi tentativo di esercitare il pensiero critico.

qui trovi il libro

 

Libro

 

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(1) Nel caso italiano, ad esempio, nel 2015 solo l’11,9% degli stagisti ospitati nelle imprese private – cioè 38.091 stagisti su 320.100 – sono stati assunti dalla stessa impresa che li ha ospitati per lo stage (Unioncamere 2015). Nuove frontiere della precarietà del lavoro. Stage, tirocini e lavoro degli studenti universitari, a cura di Rossana Cillo, Edizioni Ca’ Foscari - Digital Publishing 2017, p. 30.

,(2) Per ragioni di spazio lasciamo fuori l’articolato discorso dell’intervento pubblico in relazione al problema della disoccupazione, già affrontato in altri articoli.

(3) Cillo R., op. cit., p. 19.

(4) Ivi

(5) Cillo R., op. cit., p. 35.

 

6) Cillo R., op. cit., p. 36.

26 May 11:43

Finzione, al di là di vero e falso: la sfida teorica di Jean Baudrillard

by andrea.bonavoglia@tin.it (Giulia Savoldi)


Per Baudrillard l’incertezza e indeterminatezza in cui ci imbattiamo metterebbero semplicemente l’uomo a contatto con l’intrinseca non-verità del/sul mondo, quella non verità che il filosofo deve perseguire.


 

26 May 11:43

Recensione di Il Regno e il Giardino di Giorgio Agamben, Neri Pozza 2019

by Lo Sguardo - Rivista di Filosofia

Recensione / Luca Di Viesto In uno studio ormai classico, I fanatici dell’apocalisse, Norman Cohn ha scritto che «l’eresia del Libero Spirito ha […] diritto a un posto in ogni rassegna dell’escatologia rivoluzionaria; e ciò rimane vero anche se i suoi adepti non furono rivoluzionari sociali» (Milano 1965, p. 179). Un’affermazione a prima vista incongruente,...

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26 May 11:43

Memoria, individuo e mondo. Percorsi tra Leibniz e Hegel

by Lo Sguardo - Rivista di Filosofia

CONTRIBUTI / 5 / di Fabio Molinari Memory, Individual, and World. Itineraries Between Leibniz and Hegel This paper analyses the role of memory in two key Western philosophers: Leibniz and Hegel. By examining the specific passages in which this topic is mostly dealt with, it will be shown how memory is the main factor for...

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26 May 11:43

Un presente rivolto all’indietro. Tecniche della memoria in Bruno e Benjamin

by Lo Sguardo - Rivista di Filosofia

CONTRIBUTI / 6 / di Alessandro Carrieri A Facing Backwards Present. Technics of Memory in Bruno and Benjamin Starting from the philosophical speculations of Giordano Bruno and Walter Benjamin, the article aims to focus the theme of memory, analysing its historical and political value – as the ‘true measure of life’, image and timeless seal...

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26 May 11:42

Domenico Losurdo, Imperialismo e questione europea, a cura di Emiliano Alessandroni, La Scuola di Pitagora, Napoli, 2019, pp. 552, Isbn 9788865427095

by Domenico G. Passarelli
Per questa sezione non è richiesto un abstract.
26 May 11:42

Indice

by Redazione
26 May 11:42

Questo numero. Questione nazionale e questione europea #1 - Questioni marxiane #1

by Stefano G. Azzarà
Presentazione del numero della rivista.
18 Apr 15:24

Messi al tappeto da un coronavirus: non era Camus, è Asimov

by Paolo Costa

di Paolo Costa

 

A che punto siamo?

 

Trascorso ormai più di un mese dall’inizio dell’emergenza sanitaria che è piombata come un meteorite sulle nostre vite la tentazione di provare a fare un bilancio provvisorio del suo significato storico è quasi irresistibile.

 

Per prevenire l’obiezione dello scettico o del naturalista militante, do per scontato che un’epidemia di per sé non «significhi» nulla. Quando parlo di «significato» non mi riferisco cioè a una sorta di morale della favola inscritta a caratteri cubitali in ciò che sta accadendo attorno e dentro di noi, ma all’intersezione tra un fenomeno naturale, che segue ciecamente la sua traiettoria priva di finalità, e la trama di intenzioni dirette e derivate in cui consiste l’esistenza di una specie di animali intelligenti come la nostra. L’intersezione di questi vettori indipendenti dischiude un campo di significati che suggerisco di concepire come un ambiente intenzionale, cioè come uno spazio (non omogeneo) di azioni possibili.

 

In parole più semplici sto per chiedermi con che volto si presenti oggi il mondo a qualcuno che non possa fare a meno di agire in e su di esso. Non c’è bisogno di aggiungere che il bilancio che sto per fare è prematuro, un vero e proprio azzardo se misurato con i criteri del sapere distaccato, ma – come cercherò di chiarire mano a mano che il mio ragionamento prenderà forma – il mio obiettivo qui non è tanto la conoscenza fine a se stessa, quanto piuttosto la qualità dell’equilibrio riflessivo che guiderà le nostre scelte nelle settimane, mesi e, se vaccino e terapie tarderanno, anni a venire.

 

Il massimo danno con il minimo sforzo

 

Ebbene, dopo aver visto il nuovo coronavirus all’opera, mi è capitato spesso di pensare che se a una razza aliena superintelligente o, che ne so, ai maliziosi dei dell’Olimpo fosse venuto il ticchio di escogitare un’arma per procurare alle nostre società il massimo danno con il minimo sforzo, perfino loro avrebbero faticato a immaginare qualcosa di più efficace di quel replicante ottuso che abbiamo ribattezzato SARS-CoV-2. In effetti, tenuto conto di come funzionano le società moderne, è veramente difficile figurarsi una minaccia più subdola e abile nel colpire con precisione millimetrica i punti deboli della nostra forma di vita.

Provo a spiegare perché.

 

Il primo dato che viene spontaneo menzionare è come il virus sia riuscito nell’impresa di cogliere quasi tutti impreparati. Se si escludono quegli Stati (ad esempio la Corea del Sud) costretti a gestire nel recente passato focolai epidemici di sindromi respiratorie gravi come SARS e MERS, la progressiva adozione da parte dei principali paesi occidentali di provvedimenti eccezionali come la quarantena e il distanziamento fisico dei cittadini, più che come una scelta pianificata, è apparsa come la pura e semplice capitolazione di fronte a una sorta di implacabile effetto domino. Di fatto nessuno, nonostante il vantaggio temporale garantito dalla distanza geografica, è riuscito ad anticipare gli eventi. Chi più chi meno, tutti si sono arresi solo al fatto compiuto.

 

La causa psicologica di questa sottovalutazione sembrerebbe essere una caratteristica ben nota della psiche umana: l’inclinazione, cioè, a non cambiare abitudini consolidate finché la minaccia non diventa incombente o tangibile. Questa forma di negazionismo, come si è potuto constatare ripetutamente grazie alla asincronia tipica dei fenomeni diffusivi, ha riguardato tutti i paesi a prescindere dalle differenze culturali e si è manifestata senza eccezione nella tendenza quasi automatica a considerarsi un’eccezione. Quest’ultima ha toccato picchi di denial vitalistico in Italia con l’assalto alle piste da sci nel weekend precedente il lockdown deciso dal governo il 9 marzo 2020, ma si è riproposta secondo uno schema fisso a Madrid, Zurigo, Berlino, Amsterdam, Londra, New York o sulle spiagge della Florida e della California.

 

Viaggiare senza pilota

 

La riluttanza delle nostre comunità a fermarsi o anche solo a rallentare non ha ovviamente solo una spiegazione psicologica. Non serviva di certo una pandemia per prendere coscienza del fatto che a partire dalla Rivoluzione industriale la scommessa moderna ha significato in sostanza lasciare che prendesse forma un reticolo di interazioni e dipendenze economiche talmente intricato che nessuno è più in grado né di governare né, cosa ancora più inquietante, di monitorare. In effetti, oggi è praticamente impossibile figurarsi nel dettaglio quali effetti sulle nostre vite potrebbe avere l’eclissi o un forzato ridimensionamento della selva di sistemi d’azione che abbiamo lasciato proliferare nel corso degli ultimi tre secoli. Le metafore sociologiche classiche in questo ambito sono quelle della locomotiva lanciata a bomba verso un ignoto termine corsa o di un aereo senza pilota e non fanno certamente dormire sogni tranquilli.

 

Ora, quando il funzionamento di questo mastodontico dispositivo viene ostacolato da una minaccia esterna o interna ordinaria (ad esempio la politica estera aggressiva di una nazione confinante o gli attentati di un gruppo terroristico), lo Stato e i suoi cittadini hanno un’idea relativamente chiara di che cosa possa significare affrontare efficacemente l’emergenza. Quando invece, come nel caso dell’epidemia di CoViD-19, il funzionamento della macchina viene inceppato da un nemico invisibile, privo di qualsiasi intenzione calcolabile e di cui è difficile prevedere con precisione la pericolosità (in particolare la letalità a livello individuale), la semplice forza d’inerzia dello status quo può diventare un ostacolo formidabile.

 

Ne abbiamo avuto una prova eclatante nelle prime settimane dell’emergenza sanitaria osservando le titubanze e i dietrofront dei decision makers un po’ ovunque nel mondo. I dubbi erano più o meno sempre gli stessi: a che punto è inevitabile «fermarsi»? E bisogna fermarsi per non fare niente o per fare le stesse cose diversamente? E, visto che non è possibile fermare tutto, chi deve rinunciare a cosa? Ma, poi, chi può onestamente dire di possedere il know-how per poter stabilire con cognizione di causa qual è la parte di vita a cui è doveroso rinunciare oggi o non sarà possibile rinunciare domani?

 

Costi e benefici

 

Avendo a che fare con un virus la cui diffusione è apparsa fin dall’inizio allarmante più in senso statistico che personale, l’effetto di deterrenza del contagio non ha mai toccato vette tali da azzerare i dubbi di chi, ad esempio, tende a considerare il rischio – e il conseguente calcolo dei costi e dei benefici – come una componente ineludibile dell’esistenza umana. Non sono poche le persone con una forma mentis del genere nelle nostre società, e occupano spesso posti di vertice nella scala gerarchica di comunità politiche che, a dispetto degli ideali democratici che innervano le loro costituzioni, restano fortemente disuguali.

 

Sebbene ancora oggi l’argomento a sostegno del lockdown più difficile da confutare sia quello (prudenziale) avanzato da quanti, fin da tempi non sospetti, hanno messo in guardia contro i rischi di un collasso del Sistema Sanitario Nazionale sotto la pressione di un numero ingestibile di ricoveri nei reparti di terapia intensiva, nemmeno questa profezia apocalittica ha però impedito che l’opinione pubblica si polverizzasse rapidamente in piccole ma acrimoniose dispute di bandiera. La polarizzazione è stata favorita, tra l’altro, dalla franchezza urticante di ragionamenti utilitaristi come quelli che si sono letti per esempio in un editoriale dell’«Economist» («fino a quando potremo permetterci di dire che una vita umana non ha prezzo?») o, sul fronte opposto, dall’aplomb anticonformista di critici raffinati della forma di vita moderna come Giorgio Agamben, che, noncuranti delle conseguenze, si sono prematuramente scagliati contro la scelta a loro avviso avventata di rinunciare a fondamentali libertà personali per salvaguardare la salute pubblica.

 

In effetti, fin dalla prima ordinanza del Ministero della Salute del 22 febbraio il pendolo del dibattito politico in Italia (e non solo) ha preso a oscillare da un estremo all’altro (ossia dal «non fatevi abbindolare: è poco più che un’influenza» al «no, ti sbagli, è il segno inequivocabile dell’inizio del collasso dell’antropocene») senza che gli umori delle persone si saldassero mai, nemmeno provvisoriamente, in una tonalità emotiva prevalente. A vivacizzare le piazze reali e virtuali del paese è stato piuttosto un caleidoscopio di stati d’animo in bilico tra fatalismo e ironia, ansia generalizzata ed euforia, speranza e ostilità, scetticismo e depressione, frustrazione e noncuranza. L’unico elemento comune in questa condizione di labilità diffusa è sembrato essere un nuovo diffuso senso della fragilità della condizione umana.

 

Fragili ma non inermi

 

A uno sguardo attento, però, anche questo apparente denominatore comune rivela una divaricazione interessante. Non è difficile rendersene conto se, anziché farsi sopraffare dal pathos della vulnerabilità, uno si sforza di capire meglio che cosa hanno in mente le persone quando evocano questa fantomatica «fragilità». È indubbio che la fonte principale del disorientamento generale suscitato dalla scoperta che il nuovo coronavirus si era ormai diffuso in molte regioni italiane sia stato il senso di impotenza di fronte a una minaccia invisibile e indeterminata. Ma esattamente quale aspetto della vita quotidiana è stato vissuto come minacciato in maniera inedita dal virus?

 

Da un lato, per alcuni è stato uno shock constatare fino a che punto la qualità della vita morale delle persone dipenda da condizioni esterne che sfuggono al controllo di chi agisce. In effetti, l’incertezza generata dal rischio permanente di contagiare ed essere contagiati – a pensarci bene, la figura più emblematica dell’epidemia di CoViD-19 è proprio il paziente asintomatico, l’«untore» inconsapevole – può essere a buon diritto descritta come una condizione limite. Una verità che si tocca con mano durante un’epidemia è per l’appunto il fatto che il significato morale, per esempio, di un banale atto di gentilezza, come un abbraccio o una stretta di mano, può essere a tal punto influenzato dalle circostanze che, a prescindere dalle intenzioni di chi lo compie, da gesto di affetto o rispetto può addirittura tramutarsi nella causa di un danno fisico irreparabile.

 

Questa improvvisa fragilizzazione delle intuizioni morali più basilari, che ha finito per coinvolgere l’idea stessa di «civiltà», è incontestabile ed è una delle possibili cause del trauma collettivo che stiamo vivendo. Tutto è diventato incerto nelle nostre vite, persino la distinzione tra bene e male. Non è vero, però, che la percezione vivida della fragilità del bene ci renda necessariamente inermi. Gli esseri umani dispongono infatti di risorse per adattarsi anche a situazioni eccezionali e modulare i propri gesti senza tradire le proprie tavole dei valori. Lo dimostra, se ce ne fosse bisogno, la rapida e sofisticata inversione del valore morale della distanza nelle relazioni di cura a cui abbiamo assistito immediatamente dopo la proclamazione dello stato di emergenza.

 

Tali risorse supplementari non sono però il frutto, se non in rari casi, dell’iniziativa di individui isolati. Dipendono piuttosto da un repertorio di gesti, significati, simboli a cui gli interessati possono sì attingere creativamente, ma che sono subordinati alla vitalità dei legami sociali entro cui fioriscono le esistenze individuali. È insieme e grazie agli altri, infatti, che possiamo rispondere efficacemente anche a sfide storiche senza precedenti che ci costringono a rimodellare forme inveterate di vita comune trasformando, nei casi migliori, un’esperienza di privazione in un’occasione di empowerment collettivo. D’altro canto, se le epidemie di peste ci hanno lasciato in eredità gli ospedali moderni, non è insensato sperare che grazie a un virus più subdolo che potente possa nascere una concezione più realistica della dipendenza strutturale delle azioni e pensieri individuali dalle azioni e pensieri dei nostri simili.

 

La nuda vita

 

Per potersi sentire parte di una grande impresa cooperativa, è indispensabile, però, che il prossimo non venga vissuto come un potenziale nemico, cioè come il cavallo di Troia di cui un agente ostile potrebbe servirsi per realizzare i propri scopi malevoli. Questa mentalità da stato d’assedio, l’istintivo «si salvi chi può», è inutile negarlo, è un altro dei possibili effetti della rottura traumatica della continuità dell’esistenza provocata dall’attuale emergenza sanitaria. Una traccia di questa attitudine guardinga la si può riconoscere nella retorica bellicista che da un certo punto in avanti ha prevalso nel resoconto giornalistico dei momenti più drammatici della diffusione del contagio in Lombardia.

 

Alla base di questo sentimento di angoscia generalizzata c’è un senso di vulnerabilità diverso dall’esperienza della fragilità del bene descritta sopra. In questo caso l’epidemia è vissuta infatti principalmente, se non esclusivamente, come una minaccia contro il proprio corpo, e per di più come una minaccia costante, infida, che impone una vigilanza incondizionata. Date queste premesse, non stupisce che la solidarietà passi in secondo piano e venga soppiantata da un’ostilità diffusa, alla ricerca continua di una valvola di sfogo.

 

Un’altra conseguenza prevedibile di uno stato psicologico di allerta permanente è la pretesa che lo Stato, la scienza, il diritto, l’intera comunità nazionale assicurino lo stesso livello di rigore e disciplina quotidiana che gli individui osservano autonomamente per difendersi dal contagio e rigenerare volontaristicamente il senso perduto di dimestichezza col mondo stravolto da CoViD-19. La tutela che il proprio sistema immunitario non può più garantire a causa del nuovo virus la si esige cioè ora da agenzie esterne il cui scopo ultimo, però, non può essere la protezione assoluta dalla contingenza per ogni singolo individuo.

 

Ciò non toglie che pretendere da una persona che si sente fisicamente minacciata da chiunque incroci il suo cammino di prestare orecchio alle ragioni degli altri sia piuttosto velleitario. Al massimo la si può convincere ad aderire a un principio o a una regola generale, diciamo a uno stato d’eccezione senza eccezioni. Ha poco senso, invece, chiederle di mobilitare una risorsa, già scarsa in condizioni normali, come la fiducia incondizionata verso gli altri. È esattamente questo l’effetto socialmente più deleterio di un virus che, pur non essendo letale come la peste o il vaiolo, distribuisce i suoi doni avvelenati con un significativo grado di casualità.

 

Epidemie e infodemie

 

In questo modo, l’idea a prima vista fantasiosa secondo cui saremmo tutti impegnati in una guerra non convenzionale contro un virus alieno può trasformarsi velocemente in realtà grazie alla forza delle profezie che si autoavverano. Traendo slancio anche dalla condizione di competizione universale in cui ci siamo abituati a vivere da alcuni decenni, l’ipervigilanza è destinata infatti a trasformarsi gradualmente in una vis polemica che non fa sconti a nessuno: runner, bambini iperattivi, anziani un po’ suonati, mendicanti.

 

Un flusso così imponente di aggressività latente è per altro molto difficile da arginare in una società già normalmente sovraeccitata, dove viene giornalmente prodotta, consumata e smaltita una quantità sterminata di informazione usa e getta. Da che mondo è mondo le pandemie sono state non accidentalmente accompagnate da ondate di «infodemia», in cui sciami di ansia, speranze ingiustificate, rabbia o invidia sociale vengono periodicamente generati tramite esche abilmente preparate da incendiari di professione. La novità ora è che il confronto astioso tra le persone è a tal punto amplificato da un tratto tipico delle società pluralistiche, la frattura degli orizzonti etici, che diventa quasi impossibile sfatare il presagio, per evocare una celebre poesia di W.B. Yeats, che i legami siano sul punto di dissociarsi e il centro della nostra civiltà non possa reggere alla forza delle spinte centrifughe generate dal contagio.

 

A questo punto i timori per il futuro del tessuto sociale smettono di apparire come meri esercizi di stile di quanti vorrebbero, per esempio, che la metafora della guerra contro il virus venisse sostituita da quella più pacifista dell’incendio. La fondatezza di tali preoccupazioni fa piuttosto emergere la vera posta in gioco di questa come di qualsiasi altra epidemia di cui si abbia memoria storica, e cioè la qualità delle relazioni umani e, con esse, di beni fragili come l’autogoverno, la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, il senso civico, ecc.

 

La nuda vita e i nostri impegni morali

 

È rispetto a questo pericolo che dovrebbe attivarsi la vigilanza delle persone di buona volontà oggi, sebbene il compito di sorveglianza, per le ragioni esposte sopra, sia tutt’altro che agevole. L’azione combinata di impreparazione psicologica, rigidità sistemiche, incertezza strutturale, senso di fragilità sociale e personale, sfiducia generalizzata è destinata infatti a mettere a dura prova il patto sociale inscritto in una forma di vita plasmata dalle leggi del mercato e, soprattutto, dalle conseguenti disuguaglianze economiche. È sotto la pressione di questo complesso di cause che il carattere precario dell’alleanza tra economia e vita che ha caratterizzato il capitalismo fin dalle sue origini sta tornando prepotentemente a galla e, con esso, il dubbio troppo spesso sottaciuto: lavoriamo, consumiamo, accudiamo per vivere o viviamo per lavorare, consumare, accudire?

 

Normalmente questa domanda ce la facciamo restando comunque entro i confini di quello che i greci chiamavano il bios, la vita coi suoi abiti, «buoni» o «cattivi» che siano, e senza scomodare zoé, la nuda vita, ossia il requisito minimo del mantenersi in uno stato di salute accettabile. La forza d’attrazione del capitalismo, notoriamente, risiede proprio nel fatto che, sebbene di tanto in tanto capiti di fermarsi a chiedersi se quella che stiamo vivendo sia o no, più in senso comparato che assoluto, una vita decorosa, appagante, spericolata, dilapidata, all’altezza delle nostre aspettative o potenzialità, ecc., in genere i più si accontentano di soppesare il grado di comfort che viene loro assicurato dallo stile di vita in uso mantenendo per quanto possibile sullo sfondo sia la questione della «buona» vita sia la questione della «nuda» vita. Insomma, ci si ferma volentieri un passo prima dell’abisso, disinteressandosi in genere della precarietà di tale posizione.

 

Se c’è una cosa che non possiamo più permetterci di fare oggi, invece, è proprio evitare di chiederci quale dovrebbe essere, a conti fatti, il giusto equilibrio tra la nuda vita e tutto ciò che rende una vita degna di essere vissuta. Anche per questo ha senso descrivere la condizione che stiamo sperimentando in questi giorni come una situazione limite che reclama una serietà speciale. Non solo è urgente domandarsi quali sacrifici siamo disposti a fare nel nome della salute, ma è doveroso mettere in fila uno per uno tutti i nostri dubbi chiedendosi pazientemente: sacrifici nel nome della salute pubblica o personale? E quali margini di rischio sono tollerabili? E quale rischio: un rischio calcolato o generico? E come la mettiamo con la sorte? E con le eccezioni? E le disuguaglianze? E le ingiustizie? E così via.

 

Non a caso molti in questi giorni di straordinaria fibrillazione intellettuale hanno ricordato che le pandemie operano come una lente che ingigantisce i pregi e i difetti di una società e della sua forma di vita. I promessi sposi, in fondo, consentirono a Manzoni di tenere un’importante lezione storico-politica ai suoi lettori senza annoiarli con discorsi troppo astratti. E i capitoli dedicati alla peste erano senza dubbio il fulcro di quella lezione senza tempo. Non meno significativamente, parecchie persone nelle scorse settimane hanno sentito il bisogno di prendere o riprendere in mano un romanzo allegorico a lungo dimenticato come La peste di Camus, immergendosi nella tensione morale quasi insostenibile che avvolge la storia del dottor Rieux e prendendo mentalmente nota della differenza tra questo stato d’animo tonificante e l’effetto debilitante di quella condizione di ansia generalizzata che ha spinto, al contrario, la maggioranza di noi a misurare soltanto la propria spaventosa inadeguatezza.

 

Quale che sia il nostro umore dopo settimane di distanziamento fisico dai nostri cari, dai nostri luoghi dell’anima e dai nostri concittadini, resta comunque il fatto che non è nel nostro interesse distogliere lo sguardo troppo a lungo da quello che sta succedendo intorno a noi. Riallacciandosi all’immagine dell’ambiente intenzionale da cui ho preso le mosse, è forse più utile immaginare il mondo durante la pandemia come una regione devastata da un gigantesco incendio anziché come un paesaggio osservato col binocolo o una forma di vita analizzata al microscopio. Quello che ci si presenta davanti agli occhi è un panorama diversificato. Ci sono luoghi più fortunati che sono scampati alle fiamme, ma sono pochi e fungono più che altro da monito contro le facili illusioni. Accanto a essi appaiono chilometri e chilometri di campi devastati dall’incendio che ci sbattono in faccia il nostro way of life nella sua essenza – lo scheletro di uno stile di vita perso per sempre, con i suoi pregi e i suoi difetti, le sue potenzialità e i suoi limiti. Qua e là poi fanno capolino fazzoletti di terra già bonificati e pronti per ospitare nuovi modi di stare al mondo, diversi da quelli a cui eravamo assuefatti. Esiste un modo ragionevole di concepire questo ambiente trasfigurato come un possibile spazio di azione? È questa la domanda sgradevole che non dovremmo smettere di farci d’ora in avanti.

 

La fatica dei processi

 

È venuto il momento di azzardare il bilancio annunciato nelle prime pagine di questo articolo. Qual è, a conti fatti, la lezione generale che possiamo trarre dal breve periodo trascorso dall’inizio della nuova era post-CoVid-19?

 

La prima lezione è in realtà una meta-lezione. Non dobbiamo dimenticare, cioè, che siamo appena all’inizio di un lungo, faticoso e incerto processo di accomodamento e, auspicabilmente, di apprendimento. Se in genere le persone faticano a immaginare e affrontare le contingenze della vita in termini di processo anziché come eventi puntiformi, in questo caso il compito è ulteriormente complicato dal fatto che, per la natura stessa delle pandemie, dobbiamo progettare e realizzare una fuoriuscita dall’emergenza che non sia né un ritorno puro e semplice allo status quo ante né uno slancio vitalistico nell’ignoto.

 

Per quale motivo è faticoso assecondare la natura processuale dei grandi cambiamenti individuali e collettivi? Non è solo una questione di pazienza. Il punto è che i processi richiedono una specifica forma di attenzione e disposizione verso le cose che accadono. Volendo, si potrebbe descrivere questa attitudine anche come una forma di saggezza pratica che capitalizza una verità basilare dell’esistenza, ossia che la vita è un processo opaco nei suoi fini e assecondare il carattere processuale delle azioni è spesso l’unico modo per non farsi travolgere dagli eventi.

 

Se ci si pensa bene, una caratteristica distintiva dei processi è che hanno la struttura di una sinfonia: non possono cioè essere scomposti negli elementi che li costituiscono, pena la dissoluzione del loro senso immanente. E per godere pienamente di una sinfonia, in effetti, è necessario raggiungere uno stato d’animo capace di resistere alla tentazione continua di assolutizzare un momento dello sviluppo dei temi musicali (quello più drammatico, quello più elettrizzante, quello più malinconico). Lo stesso, fatte le debite proporzioni, vale per i processi di accomodamento e apprendimento.

 

Non tutti i processi, però, sono processi di apprendimento. Il primo obiettivo, allora, è proprio distinguere il carattere sinfonico ed esplorativo di tali processi dagli automatismi dei processi impersonali e sistemici. Già oggi possiamo infatti notare un’inerzia del cambiamento provocato dall’epidemia di CoViD-19 che non andrà in alcun modo assecondato. Sto pensando a fenomeni già ben visibili oggi come l’accelerazione di processi sociali che erano già in corso e che oggi beneficiano della forza inerziale dell’emergenza: l’isolamento forzato degli individui, la loro passivizzazione, l’astrazione ed escarnazione delle relazioni umane, l’esasperazione delle disuguaglianze, l’appiattimento dei conflitti sul solo conflitto generazionale, ecc. Questo tipo di innovazioni compulsive che obbediscono a logiche sistemiche o schiettamente ideologiche – ho in mente qui la «logica» di una sola idea di cui parlava Hannah Arendt alla fine delle Origini del totalitarismo – non sono utili, anzi ostacolano il compito difficile, incerto e creativo che abbiamo davanti.

 

Già ora non è difficile farsi un’idea chiara di che cosa possa significare lottare contro l’assolutizzazione indebita delle diverse fasi del processo di cambiamento innescato dalla pandemia. Vuol dire, per esempio, ricordare ogni piè sospinto che il distanziamento fisico imposto dall’urgenza di rallentare la curva esponenziale del contagio non si traduce immediatamente in distanziamento sociale. La posta in gioco nella polemica sulle metafore più adatte per cogliere la natura del momento storico che stiamo vivendo è precisamente la presa di coscienza del fatto che esistono situazioni speciali in cui distanziarsi dagli altri o rinunciare ad agire non è un modo per recidere le relazioni, ma per renderle possibili e, di conseguenza, poter beneficiare del loro salutare effetto di potenziamento, capacitazione, empowerment.

 

La metabolizzazione di questa verità basilare sulla condizione umana è tanto più importante oggi perché la distribuzione asimmetrica e accidentale del danno biologico personale in una società in cui sono già presenti forti disuguaglianze economiche e un latente conflitto generazionale è destinato a esercitare una pressione supplementare su legami sociali già messi a dura prova dalla cultura politica egemone negli ultimi decenni. E la prospettiva di dover gestire in un futuro prossimo anche la concorrenza sul mercato del lavoro tra persone provviste e sprovviste di un patentino di immunità al coronavirus, e insieme a essa le nuove forme di discriminazione che ne potrebbero derivare, non fa certo dormire sogni tranquilli. Lo stesso discorso vale per la distribuzione asimmetrica delle conseguenze economiche della pandemia a livello planetario che potrebbe spingere alcuni paesi a fraintendere il vero significato di tale disparità e indurle a intascare l’effimero vantaggio di posizione nell’illusione che la mancanza di solidarietà sia moralmente giustificata da un presunto merito collettivo o da una fantomatica superiorità culturale.

 

Fare pienamente i conti col carattere processuale dell’emergenza sanitaria significa inoltre non sottovalutare uno degli aspetti più dolorosi e preoccupanti della quarantena imposta dalle circostanze: la grave limitazione, cioè, della libertà di movimento da parte dell’autorità statale. Essere consapevoli della polisemia del concetto di libertà – del fatto, cioè, che non esiste solo la libertà individuale del non essere ostacolati dagli altri nel perseguimento dei propri fini, ma che ciascuno di noi beneficia anche della libertà delle istituzioni che garantiscono tale libertà a tutti e delle «migliori» libertà che gli altri ci fanno scoprire e senza i quali non potrebbero essere godute integralmente – aiuta solo in parte a sopportare il peso della privazione di questo bene fondamentale. Uno dei vantaggi del vivere tale privazione come uno stadio provvisorio in un tortuoso processo di accomodamento e apprendimento sta non soltanto nel fatto che così possiamo prepararci psicologicamente a rivendicare tale libertà non appena sarà ragionevolmente possibile farlo, ma anche nel metterci in guardia rispetto a ulteriori restrizioni della libertà personale, in particolare del diritto alla privacy, che ci verranno molto probabilmente imposte domani nel nome della salvaguardia della salute pubblica.

 

Un altro vizio atavico che rischia di ridurre drasticamente la nostra capacità di affrontare i problemi con l’atteggiamento giusto è, infine, la tendenza tipica di società prestazionali come la nostra a scivolare senza soluzione di continuità di emergenza in emergenza. Presto, lo sappiamo, l’emergenza sanitaria sarà soppiantata da quella economica che se non sarà risolta in fretta diventerà un’emergenza politica che potrebbe rapidamente degenerare in un’emergenza di ordine pubblico a cui seguirebbe un’emergenza democratica che a sua volta causerebbe un’emergenza diplomatica, e così via. Mentre è superfluo ricordare che esistono individui e gruppi che hanno un preciso interesse a terrorizzare la popolazione martellando sull’imminente catastrofe e agevolare così l’adozione di politiche pubbliche che modifichino a proprio vantaggio la distribuzione del potere coercitivo (diretto e indiretto) dello Stato e del Mercato, non è invece superfluo ricordare che il primo e principale antidoto contro questa mentalità emergenziale è proprio la comprensione e accettazione della fatica dei processi. Resistere alla tentazione di comprimere gli orizzonti temporali abbandonandosi alle pulsioni più reattive è il modo migliore che abbiamo per non spianare la strada al disastro e aprirci una via di fuga. Lo sappiamo già tutti per esperienza personale. È fondamentale, perciò, che non ce lo dimentichiamo proprio ora che la sfida sta per diventare cruciale per il nostro futuro.

 

Morale della favola

 

Riassumendo, affinché un processo di apprendimento abbia successo, è essenziale fare tesoro di ciascuna di queste lezioni: resistere alla tentazione di assolutizzare le fasi del processo; sopportare l’opacità del presente senza cedere all’impulso a chiudere troppo precipitosamente i conti con il passato o a restringere indebitamente il nostro orizzonte di possibilità; innovare in maniera creativa e non meccanica. Alla fine, tirate le somme, il significato storico della calamità naturale che ci è toccato in sorte di vivere potrebbe essere riassunto così: (a) siamo creature fragili, ma non inermi; (b) non siamo inermi nemmeno di fronte alle esperienze più destabilizzanti perché la nostra capacità di intessere relazioni significative aumenta esponenzialmente le nostre risorse individuali; (c) tali risorse non sono unicamente attivistiche – non ci consentono cioè solo di controllare e manipolare gli eventi – ma manifestano al meglio la loro efficacia anche in gesti di rinuncia o nella capacità di rallentare o invertire la direzione di marcia; (d) il valore dei nostri sforzi si misura sul lungo periodo: la resistenza è più importante del dinamismo.

 

Riferimenti bibliografici

A Grim Calculus: Covid-19 Presents Stark Choices between Life, Death and the Economy, «The Economist», 14, 5 aprile 2020, disponibile a: https://www.economist.com/leaders/2020/04/02/covid-19-presents-stark-choices-between-life-death-and-the-economy

 

Auf einmal sind wir nicht mehr die Gejagten (intervista con H. Rosa), «philosophie Magazin», 18 marzo 2020, disponibile a: https://philomag.de/auf-einmal-sind-wir-nicht-mehr-die-gejagten/

 

G. Agamben, Riflessioni sulla peste, 27 marzo 2020, disponibile a: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-contagio.

 

H. Arendt, Ideologia e terrore, in Le origini del totalitarismo, trad. it., Edizioni Comunità, Milano 1967, pp. 630-656.

 

I. Beacock, Germany gets It, «The New Republic», 1 aprile 2020, disponibile a: https://newrepublic.com/article/157112/germany-gets-coronavirus.

 

A. Camus, La peste, trad. it., Bompiani, Milano 2017.

 

D. Cassandro, Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore, «Internazionale», 22 marzo 2020, disponibile a: https://www.internazionale.it/opinione/daniele-cassandro/2020/03/22/coronavirus-metafore-guerra

 

A. Castelli, Il virus e la dignità della vita associata, «Le Parole e le Cose2», 9 aprile 2020, disponibile a: http://www.leparoleelecose.it/?p=38101.

 

I. Chotiner, How Pandemics Change History (intervista a F.M. Snowden), «New Yorker», 3 marzo 2020, disponibile a: https://www.newyorker.com/news/q-and-a/how-pandemics-change-history.

 

P. Costa, Possiamo salvare il pianeta prima di cena, ma non lo faremo, «Le Parole e le Cose2», 24 dicembre 2019, disponibile a: http://www.leparoleelecose.it/?p=37339.

 

P Costa, Siamo fragili ma non inermi: cambiare è possibile, «FBK Magazine», 16 marzo 2020, disponibile a: https://magazine.fbk.eu/it/news/siamo-fragili-ma-non-inermi-cambiare-e-possibile/

 

P. Costa, Emergenza coronavirus: non soldati, ma pompieri, «Settimananews», 28 marzo 2020, disponibile a: http://www.settimananews.it/societa/emergenza-coronavirus-non-soldati-ma-pompieri/

 

P. Giordano, Nel contagio, Einaudi, Torino 2020.

 

Y.N. Harari, Il mondo dopo il virus, «Internazionale», 6 aprile 2020, disponibile a: https://www.internazionale.it/notizie/yuval-noah-harari/2020/04/06/mondo-dopo-virus

 

M. Legros, Coronavirus e filosofia, Gauchet: “È un risveglio del politico”, «MicroMega: Il rasoio di Occam», 25 marzo 2020, disponibile a: http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/03/25/coronavirus-e-filosofia-gauchet-%e2%80%9ce-un-risveglio-del-politico%e2%80%9d/.

 

A. Manzoni, I promessi sposi, Feltrinelli, Milano 2003.

 

S. Modeo, Tutto quello che la SARS ci aveva già predetto sul coronavirus (e che non abbiamo saputo ascoltare), «Corriere della Sera», 11 aprile 2020, https://www.corriere.it/salute/malattie_infettive/20_aprile_11/tutto-quello-che-sars-ci-aveva-gia-predetto-coronavirus-che-non-abbiamo-saputo-ascoltare-5def3030-7a73-11ea-880f-c93e42aa5d4e.shtml.

 

M. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, trad. it., il Mulino, Bologna 20042.

 

L. Penny, Questa non è l’apocalisse che ci aspettavamo, «Internazionale», 3 aprile 2020, disponibile a: https://www.internazionale.it/opinione/laurie-penny/2020/04/03/apocalisse-covid-mondo

 

R.A. Ventura, Coronavirus, sommes-nous paranoïaques?, «Le Grand Continent», 28 febbraio 2020, disponibile a: https://legrandcontinent.eu/fr/2020/02/28/coronavrius-paranoia/.

L'articolo Messi al tappeto da un coronavirus: non era Camus, è Asimov proviene da Le parole e le cose².

26 Mar 12:58

Usa: il crack finanziario prossimo e venturo

by Redazione Contropiano

Se dovessimo definire la strategia delle élites politiche occidentali – in particolare quelle statunitensi – nell’affrontare il ciclo economico ai tempi della pandemia dovremmo scomodare il “whatever it takes” di Mario Draghi nel pieno della crisi del 2012. La filosofia è la stessa, ma l’ordine grandezza è assai diverso, così […]

L'articolo Usa: il crack finanziario prossimo e venturo su Contropiano.

07 Mar 17:28

La Naksa del 1967 e la crisi degli intellettuali arabi: la lettura gramsciana di Ibrahim Abu Rabi’

by Massimo Campanini

Although Antonio Gramsci considered religion as a primitive form of culture, the Palestinian historian Ibrahim Abu Rabi’, professing to walk in his footsteps, emphasized on the contrary the positive role of Islam and the potential hegemonic function of Muslim intellectuals. In the broad framework of the Arab intellect predicament after the naksa of 1967 until the today failed “Arab springs”, Abu Rabi’ discussed, among others, Muhammad al-Ghazali’s and Muhammad al-Jabiri’s thought. In Gramscian terms, “optimism of will” can overcome “pessimism of reason” in order to build up a new Arab democratic and socialist city. Contemporary Arab intellighentsia is searching for new ways of expression and it is arguable that religion (Islam) will still enjoy in the future a decisive place.

 

Hegemony; Popular religion; Arab predicament; Naksa; Arab springs.

26 Feb 14:25

Macchine collettive contro l’innovazione capitalistica

by Nico

di Veronica Marchio

Frammenti sulle macchine. Per una critica dell’innovazione capitalistica, a cura di Giuseppe Molinari e Loris Narda, collana Input, ed. Derive Approdi, Roma 2020, pp. 104, 8,00 euro

Questa opera raccoglie e sistematizza gli interventi del seminario organizzato dal collettivo Hobo di Bologna “Tecniche viventi, vite macchiniche”, riportando la cornice teorica che ha stimolato la messa in discussione di alcune tendenze odierne per pensare una critica dell’innovazione capitalistica. Si tratta di una nuova uscita nella collana Input di DeriveApprodi, dedicata alla formazione politica e connotata da volumi – come questo – agili e di ampia diffusione, al contempo introduttivi del tema e con rigorosi livelli di approfondimento. I contributi sono quelli di Salvatore Cominu, Andrea Fumagalli, Franco Berardi Bifo; il libro è arricchito dalle interviste a Federico Chicchi, Christian Marazzi, Maurizio Lazzarato.roprio per il carattere fortemente articolato del testo, ricco di sfumature differenti e interrogativi aperti tutti da approfondire, sarebbe impossibile, se non addirittura inutile, pretendere di poter scrivere una recensione che tenga dentro tutto. Ecco perché, cogliendo lo stimolo al ragionamento teorico e politico che un tipo di scritto come questo si propone di offrire, proverò ad interagire con i contenuti del libro, individuando soprattutto gli elementi comuni dei vari interventi e problematizzando ulteriormente i nodi irrisolti che emergono con grande urgenza. 

Innanzitutto ciò che di fondamentale viene fuori dal libro, è che non può esistere una critica dell’innovazione capitalistica, tesa a costruire una progettualità politica antagonista, che non tenga insieme una serie di livelli di ragionamento e di realtà quando ci si interroga sul rapporto tra macchine, tecnologia, soggettività capitalistiche e potenziali soggettività-contro. 

C’è infatti un livello di dominio alto, in cui la dimensione del capitalismo finanziario – come spiega Fumagalli – si coniuga con lo sviluppo tecnologico e macchinico, producendo accumulazione di dominio e potenziamento capitalistico sempre più esteso. Questo livello alto di ragionamento permette di caratterizzare la critica con un punto di vista di parte: la macchina e l’innovazione non sono elementi neutrali, ma strumenti attualmente in mano alla civiltà capitalistica.

Questo elemento, per quanto apparentemente scontato, è in realtà fondamentale, poiché permette di affermare che le macchine, in quanto strumento di moltiplicazione delle forze, di potenziamento dell’attività dell’uomo, sono sempre esistite. L’uomo si è sempre dotato di esse. L’utilizzo capitalistico delle macchine non è naturale, ma storicamente determinato. Ciò di cui il libro si occupa quindi, sono le macchine capitalistiche, un sistema articolato che è costituito come macchina sociale complessiva. 

Prima di entrare nel merito di alcune questioni a mio avviso centrali, vorrei individuare due elementi ricorrenti nel testo, che possono fungere da premessa di questa recensione. In primo luogo emerge chiaramente il tentativo di mettere a verifica e a critica alcune concezioni e categorie del pensiero politico operaista italiano, in particolare attraverso gli studi e le ricerche che Romano Alquati e Raniero Panzieri – con differenze e anche contrasti tra di loro, giustamente evidenziati nel contributo dei curatori – hanno portato avanti sul tema. Secondariamente i vari autori provano in qualche modo a distanziarsi tanto da posizioni tecnofile, quanto da posizioni tecnofobe. Nelle prime l’innovazione tecnologica e il potenziamento delle macchine, ad esempio quelle biologiche come spiega Chicchi, sono viste come una grande risorsa per l’interazione della specie e per inventare nuove soggettività; oppure sono maggiormente legate al mondo della pratica politica, dove spesso l’apparato tecnologico appiattisce completamente la dimensione di realtà, rischiando di disincarnare le lotte e le soggettività. Le seconde prevedono che la tecnologia dominerà in modo totalitario e senza residui la vita dell’uomo, e perciò la soluzione che si prospetta è una rinuncia ad essa.

Nello stesso tempo, e in ciò sta l’elemento di grande stimolo del libro, la semplice terza strada del controuso della tecnologia e delle macchine – contro uso contro l’utilizzo capitalisticamente direzionato –, è posta certamente come punto dirimente, ma viene continuamente problematizzata. In questo senso il ragionamento che viene portato avanti è correttamente ambizioso: apre una sfida tutt’altro che semplice da affrontare. Tutto sommato ciò che alla fine si può affermare è che il contrario di innovazione capitalistica è rivoluzione. Ma ci arriveremo. 

Nel loro saggio introduttivo, che delinea il quadro teorico di riferimento e pone degli interrogativi, Molinari e Narda ci introducono alla definizione che Borio dà di macchina riprendendo Alquati: essa è un sistema complesso, articolato, espropriativo di capacità umane e finalizzato. Questo tipo di modo di considerare la macchina come un sistema e non come mero macchinario, viene in qualche modo riempito nel corso della trattazione. È un sistema articolato, nella misura in cui si caratterizza come sistema di macchine che sono tese alla produzione, all’organizzazione, alla gestione burocratica, macchine biologiche, sociali, che dispiegano un modo di funzionamento. Questo sistema articolato costituisce una macchina sociale complessiva – che Lazzarato definisce anche come macchina di guerra globale. È un sistema espropriativo di capacità umane. Ritengo che questo secondo elemento sia decisamente uno dei punti del libro che più necessitano di essere presi in considerazione, e difatti è anche un nodo su cui i vari interventi ritornano continuamente. 

Affermare ciò significa prima di tutto due cose: la questione dello sviluppo tecnologico delle macchine – la digitalizzazione, i big data, il mutamento delle forme del lavoro, come frontiera dell’innovazione capitalistica – non può essere assunta, come specifica Chicchi, al di fuori dei rapporti sociali di produzione, “della tensione di soggettività, estrazione del valore e sua accumulazione” (pag. 80). Cominu aggiunge che qualunque visione si abbia del rapporto tra innovazione, sapere sociale e natura del nuovo capitalismo, è difficile negare “che lo sviluppo del macchinario digitale sia stato decisivo, negli ultimi decenni, non solo per creare nuove merci ma anche per riformulare le modalità di comando sulla società” (pag. 30). Nonostante le nuove tecnologie siano specialistiche e automatiche, sono anche macchine relazionali e quindi sociali, che hanno assorbito capacità di dialogo, di regolazione ecc. Questo discorso non è in fondo contrastante con ciò che dice Lazzarato in chiusura del libro, e cioè che è la macchina sociale che crea le macchine tecniche. 

In secondo luogo, ricorrente è la critica alle teorie del cosiddetto capitalismo cognitivo secondo cui nel “postfordismo”, il lavoratore – a differenza del passato – sarebbe lasciato autonomo di cooperare per poi essere successivamente espropriato dal capitale, che succhierebbe in modo parassitario la ricchezza della cooperazione sociale. Potremmo quasi affermare che questa posizione – duramente criticata, soprattutto perché poi la presunta autonomia non ha portato a nessun sovvertimento della civiltà capitalistica –, ricade in una posizione tecnofila, affidando la progettualità politica totalmente in mano all’innovazione capitalistica. Mentre, come dice Bifo, è una temporalità autonoma che andrebbe contrapposta a quella accelerata del capitale.

Nel saggio introduttivo – e ciò in linea con lo stesso titolo del libro – i due curatori vanno invece direttamente al cuore del problema, ripartendo dal Frammento sulle macchine di Marx e dai concetti di capacità e attività umana di Alquati. Il capitale ha sempre avuto l’esigenza di liberarsi (ovvero sussumere la forza) del sapere e delle abilità operaie (viste come arma di ricatto), di impoverire la capacità umana nel senso di incorporarla dentro la macchina in funzione anti-operaia – si parla di macchinizzazione delle capacità umane – , di separarla, in quanto risorsa calda, dal corpo di chi la possiede, per inglobarla nella risorsa fredda macchinica. In altre parole, la costituzione di una contrapposizione tra la macchina e la capacità umana, che ha come effetto un potenziamento di essa per il capitale, e un impoverimento della sua potenziale linea di arricchimento contro il capitale. Come direbbe Alquati, la risorsa calda entra essa stessa in un processo di mercificazione. Pensiamo, come suggerisce Marazzi, al rapporto tra capacità umane e digitale: il lavoro vivo, che ha incorporato una serie di funzioni del capitale fisso, genera informazione e dati a partire dalle forme di vita, non solo quindi nel mondo del lavoro classicamente inteso, ma anche nel vasto mondo della riproduzione sociale. 

Il sistema macchina è infine, e di conseguenza, finalizzato. L’ovvio rischio a cui tutte le posizioni tecnofile si espongono è quello di considerare l’innovazione – e quindi le macchine – come dispositivi neutri e neutrali. Come spiega in modo eccellente Cominu, le macchine costituiscono una potenza ostile per l’agente umano, sono l’esito di un rapporto di forza, sono intrinsecamente una parzialità – direbbe Panzieri – e portano perciò ad una situazione di ambivalenza. Quest’ultimo concetto viene ripreso da Alquati, il quale ipotizzava, in modo esplorativo, un’ambivalenza irriducibile, per cui la capacità umana è solo tendenzialmente capitale e può rifiutarsi di funzionare come tale. In altre parole, se il capitale ha sempre bisogno della capacità umana per compiere il processo di innovazione – chiudendo o lasciando aperta l’ambivalenza –, la risorsa calda – per quanto impoverita – rimane comunque dentro al corpo caldo come potenzialità che può rompere i processi di lavorizzazione e mercificazione. L’ambivalenza allora, come suggerisce Cominu, va coltivata, come campo di battaglia. 

Prima di arrivare a conclusioni e interrogativi, vorrei toccare un’ultima questione importante che nel libro viene affrontata: il rapporto tra macchine e lavoro. In particolare mi sembra molto utile ciò che dice Cominu, quando afferma – riprendendo tutto un dibattito che non posso qui sintetizzare per motivi di spazio – che gli scenari sull’impatto della trasformazione digitale, anche in termini quantitativi di numero di lavori in diminuzione, sono irrealistici; più che parlare della fine del lavoro dovremmo parlare di lavoro senza fine, “laddove lavoro è meno distinguibile dall’insieme delle attività co-implicate nella produzione di valore” (pag. 37). Chicchi specifica ancora meglio questo rapporto, dicendo che in questo modello di relazione della tecnologia con il mondo del lavoro, la prestazione lavorativa deve essere assoluta e smisurata, e riguarda tanto il tempo produttivo, quanto quello riproduttivo. La gamma di capacità umane impoverite è dunque molto estesa. 

Per concludere, riprendo una domanda che Cominu, a conclusione del suo intervento, rivolge a mo di apertura di un dibattito in merito: “cosa significa contro-usare l’organizzazione infrastrutturata delle macchine digitali?” e “fino a che punto la persona umana è mezzificabile?” (pag. 40). Aggiungerei io: come immaginare un contro alla macchina sociale capitalistica complessiva, per riprendere il ragionamento sviluppato da Lazzarato? Penso che siano questi degli interrogativi cruciali, soprattutto per il fatto che la riduzione della capacità umana a mezzo è un processo, ed è un processo non risolto una volta per tutte: la risorsa umana è pur sempre calda – ritorna qui il concetto alquatiano di residuo irrisolto.

Alla luce della sfida che questo libro propone, mi sembra del tutto urgente ragionare sul fatto che, se l’innovazione capitalistica decantata come progresso dell’umano, in realtà impoverisce l’umano, potenziandolo ma privandolo della sua possibile ricchezza, costituendosi come forza ostile ad esso, è plausibile pensare a come rovesciare questa ostilità? Se l’innovazione e il progresso non sono, di conseguenza, figli della necessità di uno sviluppo che tende verso il bene, se essi sono sinonimo di sussunzione delle lotte e dei comportamenti dotati di politicità intrinseca – e quindi il contrario di rivoluzione –, come ripensare l’ipotesi del contro-uso delle macchine, in una direzione che immagini la costituzione di macchinette collettive, che producano ricchezza di capacità, organizzazione, contro-formazione e contro-soggettività?

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Macchine collettive contro l’innovazione capitalistica è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

28 Nov 18:21

America Latina, la lezione di Ho Chi Minh

by David

 

di Geraldina Colotti

Il colpo di stato in Bolivia mobilita e fa discutere. Come mai si è verificato proprio nel paese latinoamericano più lodato per la sua stabilità economica e per la crescita del Pil? E perché ha potuto spiazzare e obbligare all’esilio un presidente di provata esperienza sindacale e un vicepresidente le cui analisi hanno ottenuto l’ammirazione dei marxisti latinoamericani e non solo? Che fase sta attraversando l’America Latina? Che riflessioni possiamo trarne?

A trent’anni dal processo di “balcanizzazione”, seguito al terremoto dell’89, possiamo guardare all’America Latina come a un brulicante laboratorio di resistenza e sperimentazione, di offensiva e controffensiva, che si proietta oltre il continente, configurando i termini della lotta di classe per come si presenta nel quadro globale. L’America Latina appare oggi come una grande trincea, una sorta di linea rossa, variamente modulata, che si è opposta al dilagare del pensiero unico imposto dal gendarme nordamericano e dai suoi cantori, fin dagli anni immediatamente successivi la caduta del campo socialista.

Due, in estrema sintesi, i poli di resistenza emersi con forza nei primi anni Novanta e che hanno innescato conseguenze diverse, sia sul piano politico, sia su quello simbolico, nel continente latinoamericano e non solo. Due punti di frattura. Il primo, la ribellione civico-militare guidata da Hugo Chavez, ha avuto luogo in Venezuela il 4 febbraio del 1992 e poi il 27 novembre dello stesso anno. Il secondo si è verificato due anni dopo in Chiapas, uno stato del Messico meridionale che confina con il Guatemala e che per essere stato teatro di una rivolta indigena ha fatto a suo modo storia.

La rivolta degli zapatisti è stata considerata, anche dalle nostre parti, “il primo grido” contro il neoliberismo dilagante allora in Messico, e ha influito sull’immaginario dei nuovi movimenti.  La ribellione di Chavez ha messo in moto la grande riscossa delle classi popolari contro il sistema di alternanza tra centro-destra e centro-sinistra seguito al patto di Punto Fijo. Si è caratterizzata come il punto più avanzato della lotta per il potere politico in un paese governato da una democrazia borghese per tutto il periodo durante il quale imperversavano le dittature del Cono Sur. Una “democrazia”, messa a nudo da anni di guerriglia, che ha tuttavia avuto il triste primato di inaugurare la figura del “desaparecido” prima delle dittature del Cono Sur.

Fuori dal continente, le due ribellioni civico-militari del ’92 in Venezuela vennero però presentate come il solito putch latinoamericano sconfitto dalla democrazia. E anche nel continente latinoamericano, dove i militari erano ovviamente visti come oppressori e non come liberatori, la figura di Chavez, benché cresciuta nel solco di Fidel Castro e della rivoluzione cubana, non venne inquadrata subito nella giusta angolatura.

Per quanto riguarda l’Italia, in quegli anni – anni di picconamento sistematico a tutti i paradigmi del comunismo novecentesco – si andava imponendo la cultura del post-tutto, sempre più distante dalla ricerca di soluzioni generali intorno all’inaggirabile questione della presa del potere. Fatte salve alcune lodevoli manifestazioni di resistenza, prendeva da allora piede un sentimento sempre più diffuso dell’impossibilità di un’uscita dal capitalismo, e persino di un’ipotesi riformista, nella progressiva scomparsa della cultura del movimento operaio su cui quell’ipotesi si era appoggiata.

Negli anni in cui la figura del militante si diluiva nel volontario, nell’operatore delle ong e, in fin dei conti, nel “pompiere” del conflitto di classe votato al “piccolo è bello”, i paesi in cui sopravvivevano le “grandi narrazioni” non erano di alcuno stimolo. Più consoni all’”esodo”, al “sottrarsi”, al “cambiare il mondo senza prendere il potere” (ma all’occorrenza conquistando qualche seggio nelle circoscrizioni), apparivano paesi come il Messico, naturalmente il Chiapas (i curdi, allora, erano considerati “terroristi”), e rivendicazioni ritenute “simpatiche” come le manifestazioni dei popoli indigeni e poi quelle contro la privatizzazione dell’acqua e del gas in Bolivia.

Il tutto scodellato in salsa “trasversale” (cortei pacifisti con le magliette del Che Guevara, occultamento della contraddizione capitale-lavoro, scomparsa dell’antimperialismo come rivendicazione di piazza, elogio del tradimento e dell’emergenza…), anomica (il Novecento come peso e piombo da cui liberarsi), pronta al superamento della “coppia amico-nemico” (“i ragazzi di Salò”, “destra e sinistra, stessa cosa” eccetera eccetera).

Quanto più avanzavano la dismissione dello Stato dalle politiche pubbliche e il cosiddetto Terzo Settore assumeva una funzione di supplenza nei paesi capitalisti, anche nel sud globale diventava pervasiva la filosofia del “capitalismo filantropico” portata avanti da un esercito di fondazioni e organizzazioni “non governative” di matrice occidentale. Una pletora di vere e proprie cinghie di trasmissione e sacche di burocrazie amministrative (si veda la situazione di Haiti) di una filosofia votata alla conservazione del mondo diviso in classi, a frammentare le società per impedire la formazione di movimenti uniti nel conflitto da obiettivi comuni.

Quello dell’”umanitarismo” è oggi un enorme business calcolato in circa 150 miliardi di dollari l’anno. In America Latina – uno dei continenti con il maggior tasso di disuguaglianza al mondo – ong e fondazioni sono circa un milione. Le grandi multinazionali dell’umanitarismo influenzano, in modo diretto o indiretto, le politiche e l’opinione pubblica. Alcune fondazioni, i cui bilanci superano quello di molti paesi messi insieme, disegnano la politica nazionale e internazionale fuori dal controllo democratico.

Lo si è visto in Brasile, paese dove il numero di queste fondazioni pilotate dalla Cia è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi dieci anni. Lo si vede nell’influenza che hanno certi rapporti annuali (di Amnesty International, di Human Right Watch e consimili) nelle sanzioni decise dagli USA contro i paesi che non si inginocchiano ai suoi voleri. Lo si vede anche nella situazione attuale nei vari paesi dell’America Latina. Come ai tempi dell’Unione Sovietica, la retorica sui “diritti umani” vale a senso unico: lancia strali solo contro quei paesi che non si muovono nell’orbita di Washington, mentre volge lo sguardo altrove quando repressione e torture si perpetrano in paesi come Cile, Colombia, Honduras, o quando si verificano colpi di Stato, classici o di nuovo tipo.

 

Nel 2009, in Honduras, ha fatto la sua comparsa il golpe blando o golpe istituzionale. Il presidente legittimo, Manuel Zelaya, un liberale che aveva manifestato l’intenzione di indire un referendum per aderire all’Alba, venne impacchettato ancora in pigiama e deportato all’estero. La stessa forma eversiva venne ripetuta poi tre anni dopo contro Fernando Lugo, disarcionato dal suo vice Francisco Franco che gli fece mancare il quorum. E ha assunto l’aspetto di golpe giudiziario in Brasile nel 2016, inaugurando la stagione dei magistrati-Torquemada contro presidenti e governi sgraditi a Washington.

Il passaggio successivo si presenta nella forma dell’autoproclamazione di “presidenti a interim” non votati dalle urne ma unti dal Pentagono, e di istituzioni artificiali che li riconoscono e che mirano a disattivare nei fatti le istituzioni internazionali frutti di regole e accordi previ. La crisi strutturale del capitalismo, la profonda crisi di egemonia dell’imperialismo nordamericano che il complesso militare-industriale cerca come sempre di volgere a proprio vantaggio, connotano la guerra ibrida scatenata nel continente latinoamericano a vari livelli di intensità.

Alcuni paesi traboccanti di risorse strategiche, come il Venezuela, o considerati strategici nello scacchiere internazionale, come il Nicaragua, si trovano al centro di uno scontro per la ridefinizione di nuovi assetti geopolitici di campi contrapposti: da un lato l’imperialismo USA e i suoi satelliti, dall’altro gli attori di un mondo multicentrico e multipolare, che orientano in modo diverso i propri interessi internazionali.

Contro Cuba, contro il Nicaragua, erede dall’ultima rivoluzione del secolo scorso, si rinnova l’ossessione degli USA per il “pericolo rosso”, attivata anche contro quei governi che si richiamano al Socialismo del XXI secolo, variamente declinato. Un’ossessione dichiarata con l’arrivo di Trump, che ha riesumato personaggi che quell’ossessione l’hanno praticata nell’America Latina del secolo scorso, o che hanno agito per la balcanizzazione del mondo dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

L’America Latina risulta un interessante laboratorio per comprendere sia le tecniche di repressione del conflitto che l’imperialismo utilizza a livello mondiale, sia le nuove modalità di quella che una volta avremmo chiamato “controrivoluzione preventiva”. Una guerra ibrida che combina gli schemi “classici” con i nuovi meccanismi dispiegati a livello planetario nella gigantesca guerra contro i poveri della società disciplinare.

La globalizzazione capitalista, com’è noto, si è strutturata e si struttura nella profonda trasformazione produttiva delle economie nazionali, subordinate ai circuiti multinazionali. Le grandi corporazioni internazionali centralizzano la produzione e generano in diversi punti del mondo i singoli componenti di un prodotto finale, per minimizzare i costi di produzione. Di conseguenza, circolano nel mondo prodotti in via di definizione, trasferiti da un’impresa all’altra fino alla loro elaborazione finale in un determinato paese.

Queste imprese, però, sono semplici filiali delle grandi corporazioni. Quelle che avvengono non sono transazioni tra acquirenti e venditori con interessi distinti, ma operazioni di una grande catena produttiva i cui prezzi sono amministrati dalla grande corporation per ottenere il massimo del profitto. Le strategie economiche degli Stati nazionali che non si attengano ai dettami del Fondo Monetario Internazionale – l’organismo sovranazionale che amministra le politiche per conto del capitale subordinando l’indipendenza nazionale degli Stati – risultano perciò sgradite.

L’imposizione di piani di aggiustamento strutturale, permettono all’FMI di sostituirsi agli Stati sovrani, elaborare politiche fiscali, monetarie e finanziarie, politiche sociali e anche salariali, e politiche ambientali. Gli Stati come il Venezuela, che lottano per la propria indipendenza come parte di un progetto più generale di trasformazione, diventano allora un “cattivo esempio” da evitare. E da sanzionare con un nuovo “plan Condor” economico-finanziario, basato sui meccanismi della globalizzazione capitalista.

Uno dei motivi dell’isolamento del Venezuela da quelle aree di movimento che, in Italia, dovrebbero essere più attente agli avanzati esperimenti di potere popolare, di autogestione – di “autonomia di classe”, si potrebbe dire – esistenti nella Repubblica bolivariana, poggia sicuramente nella teoria secondo la quale, in un sistema-mondo in cui il potere diventa sovranazionale e le frontiere “inesistenti”, la lotta per l’indipendenza nazionale è questione da dinosauri.

Per anni – scrive Julio Escalona, ex guerrigliero comunista venezuelano, nel suo libro Geopolitica de la liberación – “dappertutto, il mondo accademico, compreso naturalmente quello venezuelano, si è riempito di ‘teorici’ tanto tronfi di pedanteria quanto genuflessi, che con un forte appoggio mediatico hanno cominciato a scrivere contro la sovranità e le frontiere nazionali. Abilmente hanno presentato il loro discorso come novità e, con l’appoggio internazionale, hanno definito antiquati i difensori della sovranità, delle identità regionali e nazionali, dei valori solidali, eccetera”. Contemporaneamente, dice ancora Escalona, i media di propaganda, le scuole e i centri educativi in generale, gli eserciti, le polizie, gli organismi della sicurezza e di intelligence, alcune chiese, la cosiddetta industria culturale, movimenti e gruppi di opinione, le diverse mode, la cosiddetta pubblicità commerciale, esaltavano per farne mercato ogni tipo di diversità culturale, etnica, politica, eccetera, mentre si dedicavano a distruggere popoli, culture e ecosistemi.

Sappiamo che, anche in Italia, la critica alle “grandi narrazioni” novecentesche ha confinato lotte settoriali legittime e anche radicali, al contesto locale, e che alcune suggestioni provenienti dall’America Latina negli anni dei movimenti “altermondialisti”, come quella del “bilancio partecipato” hanno prodotto lo stesso effetto. Al contrario, inserito in un concetto di trasformazione generale della società e dei rapporti di produzione, il concetto di democrazia partecipativa (che implica il bilancio partecipato), profondamente declinato nella Costituzione bolivariana, porta una critica profonda ai meccanismi della democrazia borghese, che appare in crisi conclamata in tutti i paesi capitalisti, dove i popoli votano, ma non decidono.

Fuori da una visione d’insieme capace di articolare il particolare e l’universale, anche concetti benintenzionati e “basisti” servono la logica ipocrita del capitalismo filantropico, che parla di pace ma prepara la guerra, militarizza le relazioni internazionali, fa carta straccia di quei diritti che proclama di difendere, impone insomma una evidente tendenza totalitaria e disciplinare che chiude il conflitto nel recinto delle compatibilità capitaliste.

“La sovranità- scrive il poeta Escalona – non è un semplice attributo dei popoli e delle nazioni. E’ una caratteristica della natura, della vita tutta, delle piante, degli animali, di ogni essere umano. Un albero, qualunque esso sia, è sovrano, racchiude in sé un ecosistema, però solo può crescere come albero in una relazione complementare, di interdipendenza, di cooperazione, con i passeri, con la terra, con la pioggia, con il vento, con tutte le energie dell’universo. Questo può accadere perché l’albero esiste come tale”.

In termini tutt’altro che poetici ma espliciti, il rapporto del Comando Sur illustra le azioni contro i popoli che hanno deciso di essere sovrani. S’intitola “guerra totale in tempo di globalizzazione”. Mostra come siano cambiate le strategie belliche degli USA e il suo sistema di difesa dopo la guerra in Afghanistan. Si definiscono tre livelli di conflitto che implicano azioni di guerra convenzionale e non convenzionale.

Queste possono essere imposte da uno stato contro un altro oppure in forma indiretta, mediante organizzazioni criminali, bande paramilitari che contendono il territorio al potere popolare e al governo socialista. In questo modo, lo impegnano in un conflitto che, nell’intento di difendere la sicurezza dei settori popolari, lo porta a concentrarsi sulla sicurezza, alienandosi così le simpatie di quella parte di popolazione proveniente dai settori più emarginati e dei movimenti libertari.

Non è, questa, una questione da poco, considerando che il blocco sociale riunito dal socialismo bolivariano, oltre agli operai, ai contadini, agli studenti, comprende anche quegli ultimi della catena, quei “dannati della terra” considerati nella IV Repubblica come gli scarti della società opulenta. Una massa fluttuante a cui cerca di attingere l’estrema destra, comprandone i corpi e le coscienze, quando il passaggio alla consapevolezza, all’impegno politico e all’organizzazione non si è ancora realizzato. Lo si è visto durante le violenze contro il governo – le guarimbas.

Un’azione resa più facile dalle conseguenze di una guerra economica che, in questi vent’anni dalla vittoria elettorale di Chavez, e in particolar modo con il governo di Nicolas Maduro, ha cercato con ogni mezzo di strangolare l’economia venezuelana per obbligare il popolo a rovesciare il governo. Il primo livello di conflitto illustrato dal Comando Sur, oltre all’impiego di “attori non statali” nella preparazione del colpo di Stato, contiene infatti altre due principali forme di attacco: la destabilizzazione economica e l’attacco alla moneta.

Il Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) sta usando il rapporto del Comando Sur come materia di analisi e di formazione, diffusa nei Bollettini del partito insieme alle linee organizzative discusse in centinaia di assemblee e confermate dai diversi congressi internazionali che si sono svolti a partire dal Foro di Sao Paolo.

Documenti in cui si mettono a fuoco i punti di forza e di debolezza del processo bolivariano, che oppone la democrazia “partecipata e protagonista” al mito “dell’alternanza” che guida la democrazia borghese. In assenza della dittatura del proletariato, ovvero della messa fuori legge della borghesia, questo implica un certo livello di lotta di classe – e anche di forzature – all’interno delle istituzioni: condotto sì in punta di diritto, ma soprattutto in forza delle necessità e della volontà popolare.

Battaglie che, non a caso, hanno fatto arricciare il naso e la tastiera a tanti democratici procedurali di casa nostra, pronti a feticizzare i meccanismi della democrazia borghese, ma a non muovere un dito e tantomeno una piazza quando l’imperialismo si mette quelle regole sotto i piedi, forzando a proprio vantaggio il quadro istituzionale.

La “moda” delle autoproclamazioni, la costruzione di governi paralleli “di fatto” per distorcere le costituzioni e l’ordine giuridico interno, fanno parte della guerra multifattoriale dell’imperialismo. La costruzione di organismi artificiali privi di legittimità internazionale serve a saccheggiare le risorse dei paesi non subalterni con la complicità delle banche europee. Mira a fare dell’anarchia del capitalismo un dato acquisito e digerito, debitamente preparato dalla propaganda dei media e dalle grandi agenzie dell’umanitarismo.

L’atteggiamento di Luis Almagro come segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, e anche quello di Michelle Bachelet come Alta Commissaria ONU per diritti umani contro il Venezuela, e la loro passività di fronte alla repressione in Cile, a Haiti, al golpe in Bolivia e ai sistematici massacri in Colombia, mostrano peraltro l’inconsistenza di quelli che dovrebbero essere i contrappesi delle istituzioni “ufficiali”.

La situazione dovrebbe inquietare tanti “sinceri democratici” europei, che invece si affannano a appoggiare gli USA nel loro Far West di sanzioni, ricatti e regole occulte che violano tutti – ma proprio tutti – i diritti umani che pretendono di imporre con le bombe o con la fame.

Per i rivoluzionari, per chi non si rassegna a vivere nel recinto, dovrebbe valere ancora la famosa affermazione di Mao: “Grande è il disordine sotto il cielo, la situazione dunque è eccellente”. Guardare all’America Latina, guardare a quel che accade in Venezuela, a quel che è accaduto in Brasile e in Bolivia, serve a rimettere in moto la memoria della lotta di classe e delle rivoluzioni.

Prima del golpe in Bolivia, agli economisti venezuelani veniva chiesto spesso perché nel loro paese ci fosse una inflazione stellare e un arresto della crescita, mentre la Bolivia sembrava un piccolo gioiello economico, lodato anche nei paesi capitalisti benché retto dal “socialismo andino”. Si dimenticava che, nel conto generale del continente, il Pil della Bolivia e anche il suo ruolo geopolitico erano poca cosa. E adesso, tutti si fiondano sulle ceneri della democrazia boliviana come avvoltoi sul cadavere.

Perché Evo Morales è improvvisamente passato dall’immagine benevola di “primo presidente indio” a quella di dittatore avvezzo alle frodi? Di sicuro, questo cambio di immagine è stato preparato bene: dall’oligarchia boliviana, appoggiata dall’imperialismo nordamericano e dai centri del potere finanziario. Con la complicità dell’Osa, il “ministero delle colonie” presieduto da Almagro, il governo Trump vuole mettere la mano sulle risorse della Bolivia – gas e litio in primis – e esportare il “modello” a tutta la regione: per picconare pezzo per pezzo l’integrazione latinoamericana e impedire che il socialismo torni a essere una speranza concreta per il Latinoamerica, e per il pianeta.

Washington ci ha lavorato fin da subito, in base alla strategia della “guerra globale in tempi di globalizzazione”, che prevede il ruolo dei grandi media nella sistematica demolizione dell’immagine dei governanti non graditi. L’ultimo discorso pronunciato da Morales all’ONU contro Trump dev’essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso del Pentagono.

Il golpe in Bolivia può però anche essere letto come una strategia di distrazione e un forte avvertimento a un continente che vede due grandi paesi come il Messico e l’Argentina affidarsi nuovamente a governi progressisti, e un generale risveglio della lotta di classe in altre roccaforti dell’imperialismo come il Cile e la Colombia.

Di sicuro, l’attacco del nemico agisce sui punti deboli della lotta di classe, facendo deflagrare contraddizioni e divisioni. In Bolivia, è evidentemente mancata la forza cosciente e organizzata di un partito, non solo non si è costruita quella unione civico-militare, architrave della rivoluzione bolivariana, ma nemmeno è evidentemente stata pensata quella strategia di “difesa integrale” che, in Venezuela, fa parte del corredo di ogni militante.

Ovviamente, ogni contesto ha la sua storia e – come dicono i venezuelani – una rivoluzione non è “né calco né copia”. Le cose, poi, si complicano ulteriormente quando si tratti di definire come “rivoluzioni” quei processi progressisti seguiti alla vittoria di Chavez in America Latina che non hanno messo in causa profondamente i rapporti di produzione.

Tuttavia, pur senza voler pontificare da dietro una tastiera, dal golpe contro Allende in Cile a quello contro Chavez nel 2002, dal golpe giudiziario in Brasile al tradimento di Moreno in Ecuador, si sarebbero potute trarre alcune lezioni. Una delle più evidenti ingenuità di Evo Morales è sicuramente stata quella di mettere la volpe a guardia del pollaio, invitando “il ministero delle colonie” come garante del processo elettorale.

Ma forse, proprio la fragilità dimostrata dall’Ecuador, e per altri versi anche dalla Bolivia, mostrano l’inadeguatezza delle alleanze che hanno dato la vittoria ai governi progressisti, e la necessità di assumere un più alto livello dello scontro qualora si intenda portare più a fondo la trasformazione strutturale del modello produttivo.

Il MAS, la formazione che appoggia Morales, non ha evidentemente le caratteristiche del PSUV, un partito di massa e di quadri che confida sull’attivazione permanente del potere popolare, del potere costituente. Per commentare il rapporto del Comando Sur, il Bollettino N. 150 del PSUV si serve delle analisi di Ho Chi Min, ricalibrandole al contesto di una “rivoluzione pacifica, ma armata” come Chavez ha definito il processo bolivariano. “Se l’imperialismo USA ci attacca – dice spesso Maduro – il Venezuela si trasformerà per loro in un nuovo Vietnam”. Come dire: il “socialismo del XXI secolo” ha ancora da imparare dal grande Novecento. Vale anche dalle nostre parti.

31 Mar 12:10

ALITALIA: LA FINE O UN NUOVO INIZIO?

by SOLLEVAZIONE
[ 29 marzo 2019 ]

Della importantissima vicenda Alitalia molte volte ci siamo occupati negli anni.
Una via crucis per la maestranze, una telenovela dalle infinte puntate (per la politica ed i media) che rischia di giungere molto presto alla fine, diciamo dopo le elezioni europee.

Ma come sarà l'epilogo? Tragico o bello?
Oggi il Corriere della Sera pubblica un'indagine molto dettagliata scoprendo l'acqua calda, ovvero che la compagnia di bandiera spende una montagna di soldi per il leasing degli aeromobili, per l'esattezza il 60% in più dei prezzi medi di mercato.

Ma torniamo alla questione di come si potrebbe concludere la saga.

L'altro ieri i commissari hanno lanciato una specie di ultimatum: "E' fondamentale che le Ferrovie prendano una decisione finale", in caso contrario ci sarà "la liquidazione
dell'azienda". Essi avvertono che ci sarà tempo fino a Pasqua per chiudere la trattativa, altrimenti ci sarebbero solo due strade: svendere la compagnia a Lufthansa (come preferirebbero il Ministero dell'Economia e certi ambienti della Lega) oppure la liquidazione. In altre parole, se ferrovie non conferma la sua disponibilità ad entrare nella compagnia, due modi di uccidere Alitalia.

Ferrovie e Delta — che insieme dovrebbero avere il 45% della nuova società, con l'apporto del Tesoro si arriva al 60% — sembra stiano cercando altri partner tra cui Fincantieri.
Inutile menare il can per l'aia, la decisione finale spetta al governo.
L'augurio è che prevalga la decisione di prendere in mano e rilanciare, con un serio piano d'investimenti, la compagnia. 
E' nelle mani del governo la facoltà di spingere Ferrovie a compiere il passo annunciato, coinvolgendo CdP e se serve anche Fincantieri.
Affidarsi a Lufthansa significherebbe tagli enormi ai livelli occupazionali e trasformare la compagnia in una rachitica succursale tedesca.

I lavoratori non possono restare inermi davanti a questo bivio. Dovrebbero mobilitarsi affinché il governo si decida perché Alitalia viva e diventi una grande compagnia a proprietà pubblica di trasporto aereo.

I Cinque stelle, per bocca dello stesso Di Maio, nel febbraio scorso, si erano impegnati per questa seconda opzione.

TENGANO FEDE A QUESTA LORO PROMESSA, IMPEDENDO A TRIA ED AGLI ESPONENTI PIU' NORDISTI DI LEGA, DI SVENDERE A LUFTHANSA!


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15 Dec 23:48

Forza lavoro, futura umanità

by Roberto Ciccarelli
Pubblichiamo un estratto della relazione che verrà presentata al convegno 200 Marx. Il futuro di Karl, al Museo Macro di Roma, dal 13 al 16 dicembre. Qui il sito dell’iniziativa.  La base materiale di una nuova politica non è la coscienza, il popolo, lo Stato, o i mercati, ma quella materiale, storico-tecnica ed etica della forza lavoro. La forza lavoro >…
29 Nov 18:34

BAHRAIN. Farsa elettorale all’ombra della repressione

by Redazione

INTERVISTA. «L’atteggiamento della comunità internazionale, Usa ed Europa in testa, offre alla monarchia bahranita l’impunità di cui ha bisogno per negare diritti umani e politici», denuncia la nota attivista dei diritti umani Maryam al Khawaja

Bahrain

di Michele Giorgio     il Manifesto

Roma, 26 novembre 2018, Nena News – Si sono chiuse l’altro ieri alle 20 le urne in Bahrain. I media governativi e quelli delle altre monarchie del Golfo per tutto il giorno hanno raccontato il presunto “successo” della votazione per l’assegnazione dei 40 seggi della Camera bassa e per il rinnovo dei consigli municipali: alta affluenza ai seggi, il maggior numero di candidati (293) dal 2002, 50mila nuovi elettori e via dicendo. Hanno sorvolato sui dati fondamentali, ossia che le elezioni sono una farsa, il parlamento non ha alcun potere, i partiti di opposizione, lo sciita Wefaq e il socialista Waad, sono stati messi fuorilegge, nelle carceri languono circa 4000 detenuti politici, la libertà di stampa è inesistente e che un semplice tweet critico della politica di re Hamad bin Isa al Khalifa può costare cinque anni di carcere, come sta sperimentando sulla sua pelle il noto difensore dei diritti umani Nabeel Rajab. La monarchia del Bahrain, forte del silenzio-assenso di Stati uniti ed Ue, e del sostegno, militare ed economico, che riceve da Arabia saudita ed Emirati, fa ciò che crede ed è sempre più brutale, hanno denunciato venerdì tre centri per i diritti umani bahraniti e del Golfo, costretti a riunirsi a Beirut per sottrarsi a pesanti rappresaglie. Sulle elezioni e la repressione in Bahrain abbiamo intervistato Maryam al Khawaja, attivista di primo piano costretta all’esilio.

Il voto, denuncia l’opposizione, è artificiale, privo di qualsiasi significato e rappresenta solo una copertura per un regime brutale.

È così. La lotta del popolo del Bahrain parte da lontano. Anche prima del movimento popolare per le riforme del 2011 (represso nel sangue da re Hamad, ndr) i bahraniti si battevano per avere delle vere istituzioni democratiche e un parlamento vero. Ma non è cambiato nulla. La Camera bassa che uscirà da queste elezioni sarà priva di poteri. Manca inoltre un organo indipendente di controllo che vigili sul potere esecutivo. E se prima all’opposizione era garantita una rappresentanza simbolica, ora neanche quello, siamo in un clima politico persino più pericoloso e grave. I partiti dell’opposizione sono stati dichiarati illegali e i loro leader incarcerati, come Ali Salman (al Wefaq) condannato all’ergastolo. La libertà politica e quella di stampa sono inesistenti.

Il mondo lascia piena libertà di azione alla monarchia al Khalifa, complice anche la presenza in questo piccolo arcipelago di basi militari americane e britanniche.

Voglio essere esplicita. Gli Stati uniti, il Regno unito e l’Ue non solo non criticano l’assenza dell’opposizione dalle elezioni e si astengono dal condannare repressione e abusi. Offrono consapevolmente pieno appoggio alle politiche della monarchia che già gode dell’alleanza con l’Arabia saudita.

Lei cita spesso il caso di suo padre per denunciare l’ipocrisia dell’Europa.

Perché è emblematico. Mio padre, Abdulhadi al Khawaja (attivista dei diritti umani, arrestato nel 2011 e condannato all’ergastolo, ndr) oltre ad essere un bahranita è anche cittadino danese, quindi un europeo. Cosa ha fatto sino ad oggi l’Unione europea per proteggere questo suo cittadino imprigionato per aver denunciato crimini e per aver espresso il suo pensiero? Nulla. Eppure l’Europa afferma la volontà di proteggere i diritti umani. L’atteggiamento della comunità internazionale, Stati uniti ed Europa in testa, offre alla monarchia bahranita l’impunità di cui ha bisogno per proseguire la repressione.

Fino a quando tutto questo potrà andare avanti.

Fare previsioni non è facile ma posso dire che la situazione in Bahrain è molto instabile. La nostra economia sta crollando. La monarchia anni fa descriveva il Bahrain come un hub finanziario mentre ora è costretta a chiedere ingenti fondi ai sauditi per sopravvivere e la popolazione, soprattutto la nuova generazione, affronta crescenti difficoltà. Quando la negazione dei diritti fondamentali si accompagna alla crisi economica nessun regime può sopravvivere. Nena News

25 Jun 16:48

Reggio Calabria. #Primaglisfruttati, per Soumaila Sacko

by Redazione Contropiano

Il video della diretta: Tutte le foto sono di Patrizia Cortellessa In migliaia hanno sfilato questa mattina a Reggio Calabria con l’Unione Sindacale di Base per la manifestazione nazionale nel nome di Soumaila Sacko, indetta per dire no allo sfruttamento e sì ai diritti. Superati la misteriosa sparizione dei bus […]

L'articolo Reggio Calabria. #Primaglisfruttati, per Soumaila Sacko su Contropiano.

27 Apr 20:06

Latina: Paraguay: nelle urne ritorna lo stronismo

by David Lifodi
Mario Abdo Benítez è esponente dell’ala filostronista del Partido Colorado. Suo padre è stato il segretario di Alfredo Stroessner
25 Apr 19:41

Groenlandia, la “Catalogna boreale” che può cambiare il volto dell’Europa

by Marzio Mian

C’è del marcio in Groenlandia, dicono in Danimarca. Infatti le elezioni di domani 24 aprile nell’isola più grande del mondo, a Copenaghen sono vissute come un referendum secessionista, i giornali danesi parlano ormai di Greenxit oppure di Catalogna boreale.

Se vincessero, come pare, le forze che spingono per l’uscita immediata della Groenlandia dal Regno, di cui rappresenta il 98 per cento del territorio, s’aprirebbe una crisi di portata internazionale, anche se Kalaallit Nunaat, la Terra dell’uomo del Nord, come la chiamano gli inuit, è abitata da soli 57 mila individui, praticamente gli spettatori dello Juventus Stadium.

Ciò che accade a Nuuk, la lillipuziana capitale groenlandese, coinvolge interessi globali, l’Europa, gli Stati Uniti, la Nato, la Cina. L’accelerazione verso la totale indipendenza – aspirazione che accomuna tutti i partiti, divisi solo dalla tempistica – è dovuta alla travolgente trasformazione dell’Artico a causa del cambiamento climatico e all’irreversibile scioglimento dei ghiacci.

Nel “Nuovo Artico” è in atto la corsa per la conquista delle immense ricchezze ora accessibili; una fetta di pianeta che era quasi la Luna e ora, lontano dai riflettori mediatici, è diventata teatro del Grande Gioco geopolitico del Terzo millennio. E la Groenlandia, territorio danese nonostante gli inuit dal 2009 abbiano progressivamente conquistato la libertà d’autogovernarsi (a parte la politica estera e di difesa, ancora in mano a Copenaghen), si trova al centro della contesa con il suo strategico capitale geografico, ma soprattutto perché è una cassaforte mineraria che racchiude rubini, smeraldi, diamanti, oro, uranio, zinco, petrolio, gas…

Nonostante la pesca rappresenti ancora il 90 per cento del Pil e delle esportazioni, gli Inuit, afflitti da disoccupazione e degrado sociale, intendono comprarsi il biglietto per la libertà con le miniere; determinati a emanciparsi definitivamente dal Regno, che contribuisce con 500 milioni di euro l’anno per un minimo di welfare (non certo di livello scandinavo), offrendo concessioni a canadesi, australiani, sudafricani, soprattutto ai cinesi.

Dura per la piccola Danimarca mollare il bottino e perdere, attraverso la Groenlandia, il ruolo di potenza artica europea, l’unico Paese a tenere agganciata l’Ue alle opportunità di sviluppo nella regione che cresce di più al mondo, 11 per cento l’anno, dove si aprono nuovi immensi territori di pesca, nuove rotte mercantili, dove c’è tutto da costruire, fosse solo per i milioni di turisti sempre più attratti dal Grande Nord.

La Groenlandia uscì trent’anni fa dall’Unione, unico precedente alla Brexit; l’ultima speranza di Bruxelles è che decida di aderirvi da Stato indipendente. Nonostante le aperture commerciali degli ultimi anni, a partire dall’impegno di Antonio Tajani da commissario all’Industria per far restare l’Europa nella partita mineraria, e ai miliardi spesi in compensazione per le quote acquisite sulla pesca, lo sguardo dei sovranisti eschimesi, di destra e sinistra, è volto alla Cina, potenza che si definisce “quasi artica” e che ha annunciato da poco lo sviluppo di una Via polare della Seta.

La Groenlandia sta diventando il quartier generale di Pechino nel Grande Nord. Nell’isola ha già investito circa venti miliardi di euro, aprendo miniere di zinco, ferro, uranio e terre rare, impegnandosi nella costruzione di tre aeroporti e una grande base “scientifica”.

I ministri inuit sono ricevuti regolarmente al più alto livello dal governo cinese, indifferente all’irritazione di Washington e all’indignazione di Copenaghen: sappiamo come l’Occidente sia bene attento a non interferire in Tibet, addirittura a evitare incontri con il Dalai Lama, ma la Cina non si fa scrupoli a operare in Groenlandia come ha fatto in mezza Africa, ignorando lo status di un’isola ancora territorio danese e prima base militare strategica americana nell’emisfero settentrionale. Sin dai tempi della Guerra Fredda la Groenlandia è stata la garitta del Pentagono in cima al mondo; la base di Thule, a 800 chilometri dal Polo Nord è dotata di un sistema radar per la difesa antimissile in grado di proteggere Stati Uniti ed Europa, ma controlla anche molte operazioni in medio oriente (la cattura di Saddam Hussein fu gestita tra i ghiacci). L’ex ministro degli Esteri Vittus Qujaukitsoq, filocinese e ora a capo di un nuovo partito nazionalista (Nunatta Qitornai, discendenti della nostra terra) annuncia non solo la secessione dalla Danimarca, ma anche la chiusura delle basi americane e l’uscita dalla Nato. Ecco perché a Washington, come a Bruxelles, a Pechino e a Copenaghen le elezioni groenlandesi, di cui fino a qualche anno fa nessuno avrebbe nemmeno sentito parlare, sono improvvisamente sotto i riflettori.

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che può cambiare il volto dell’Europa
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